Bene, ora crepa

Ma che cos’era la famosa politica dei politicanti, quella della vecchia Repubblica, quella del palazzo e contro la gente, che accidenti era oltretutto se non il vacuo ripetersi di ogni frase e del suo contrario? Che cos’era, se non un moto rotatorio e parolaio posto al di sotto di ogni soglia basica di dignità, coerenza, onestà intellettuale, valenza della parola data, corrispondenza minima tra parola e azione?


E allora, egregi lettori, colleghi giornalisti, presunti storici: prego, memorizzate la seguente frase scandita lentamente da Antonio Di Pietro alla trasmissione L’Incudine, Italia Uno, giovedì 3 novembre 2005, ore 00.14.
Scena: c’è il conduttore Claudio Martelli che chiede a Di Pietro se ritenga più grave “un politico che riceve un finanziamento illecito in campagna elettorale oppure un magistrato che riceve regalie e denaro”, e il riferimento, come Martelli puntualizza chiarissimamente, è alle regalie e ai denari scroccati a suo tempo dall’ex magistrato.
Risposta ipertestuale di Di Pietro: “Sono doe… deontologicamente scorrette entrambe le cose. Io credo però che sia più grave colui che amministra la giustizia che colui che amministra la politica”.
Voilà, revisionismo minimal, ora passiamo alla prossima domanda dopo avervi poc’anzi spiegato, in parole povere, nel caso poverissime, che l’architrave giurisprudenziale che ha abbattuto una Repubblica e interi partiti storici, che ha tagliato il grano insieme al loglio, che ha spazzato anziché ripulire, talvolta ha ucciso anziché guarire, che ha operato un’autopsia su un corpo vivo, che ha prodotto tragedie umane e politiche a mezzo di una rivoluzione giudiziaria che ti spacciano ancor’oggi come unico metodo allora possibile, tutto questo, morale, sarebbe meno riprovevole dei soldi “prestati” in scatole da scarpe, delle case e degli affitti pressochè regalati, le Mercedes, i vestiti, lo scroccume da basso impero socialista e democristiano dentro il quale – e siamo al punto – Di Pietro sguazzava perfettamente e a proprio agio, giacchè trattavasi della fonte primigenia di ciò che Antonio Di Pietro ebbe scompostamente poi a sviluppare con l’equilibrio e l’equidistanza che tutti ricordiamo.

E che cos’è simbolicamente Di Pietro, dunque e infine, se non il grande impunito di tutto questo? Che altro sarebbe, visto che per reati o scorrettezze di indubbia rilevanza disciplinare non si è potuto neppure processarlo? Che altra definizione dovrebbe avere, il mastino che cercò di capitalizzare tutto questo in una carriera politica ora fallita?
La sentenza del giudice Francesco Maddalo del 29 gennaio 1997, inappellata e inappellabile, dovrebbero riportarla nei libri di scuola contemporanea: altro che i libri di Travaglio che, non a caso, mai la riportarono per quanto fosse sentenza vera, non uno dei tanti dispositivi di «non luogo a procedere» che hanno salvato l’ex pm da innumerevoli processi: vi si spiega che mollò tutto perché voleva fare politica, si spiega il suo accanimento sfasciatutto contro qualcuno, si spiega ciò che aveva da nascondere: ciò che ora, appunto, definisce concettualmente come peggiore di un finanziamento illecito.
E intanto, Craxi al cimitero e Di Pietro tra di noi.
E ci siamo abituati. Non c’è da scaldarsi, forse. C’è da considerare che suvvia, le parole di Antonio Di Pietro da tempo non hanno più importanza.
Ecco, è su questo che occorre non starci, che forse occorre non avere, almeno non sempre, troppa voglia di scherzare: di non cedere, ossia, al medesimo moto rotatorio e parolaio che Di Pietro ora ritorce contro di noi e che si fa iperleggero, magari ci fa ridere, e difatti sai come ridevano Daniele Capezzone e Paolo Cento mentre nello studio, sempre quello de L’Incudine, inquadrati dalla regia, ascoltavano Di Pietro che ancora: “Io credo che .. ergh… non si può dire che siccome… eh… anche i furti fanno male, si possono anche fare anche le rapine… Io credo che nel caso di specie bisogna fare in modo che si fumi meno e ci si ubriachi meno, ma non per questo che si, eh, ci si continui a drogare di più”.
Ridere magari a crepapelle: “Io coi radicali possono confrontarmi senza l’idea che dicono una cosa davanti e fanno una cosa di dietro”.
Poi ti fermi un attimo e alla tua ignavia categoriale lascia il posto a un certo sbigottimento, ti chiedi per quale ragione dovresti mantenere un gelido equilibrio quando a suo tempo non l’ebbe nessuno, o quasi, e ti ricordi che Di Pietro aveva appena lasciato in libertà il banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia quando rispose in questo modo ai legali di Craxi col loro certificato medico: “Mi sembra che Craxi ha un foruncolone al piede con pus, più che un’ulcerosi”. E ancora, dopo un altro certificato circa un attacco cardiaco, “Quante storie, anch’io ho dei problemi alle coronarie e sono sotto controllo medico”, con il Corriere della Sera di Paolo Mieli a titolare in apertura di pagina il giorno dopo: “Di Pietro è malato di cuore”.
Ora però dovremmo fare spallucce, rimanere calmi, rimanere serafici come Di Pietro mentre sempre a L’Incudine, dopo che Claudio Martelli gli aveva chiesto se non gli dispiaceva di aver ferito un uomo che stava morendo, ossia Craxi, lui rispondeva: “All’epoca che io ho detto quella frase, in riferimento a un caso specifico e concreto, se dovessi tornare indietro, io quella frase non la ridirei più”. E via, verso nuove avventure.
Tanto ormai si può dire tutto, e a nessuno importa più di nulla.
E’ il nostro turno.
Dottor Di Pietro, sparisca dalla faccia della terra. Sparire vuol dire sparire, nascondersi, non farsi vedere mai più. C’è da rifare un Paese, lei ha saputo solo abbatterlo e spargervi il sale.

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1 Commento

  1. Mi consenta….

    Gentile sig. Filippo Facci,
    mi consenta da questo piccolo ed umile blog di dissentire da quanto oggi scritto da Lei su Macchianera.
    Nell’articolo Lei inveisce alquanto contro Antonio Di Pietro, reo di fare del revisionismo spicciolo. Francamente…

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