Il caso Moro /6

CAPITOLO VI

Il caso Moro (di Sergio Flamigni e Michele Gambino)Il 23 maggio del 1980 Francesco Cossiga fu interrogato dalla commissione d’inchiesta sul caso Moro. Da alcuni mesi era presidente del Consiglio. Dimessosi all’indomani della conclusione tragica della vicenda Moro (da lui seguita nel ruolo-chiave di ministro dell’Interno) era rapidamente tornato al vertice del potere, alla guida di un governo comprendente, dopo molti anni, anche il Psi.
Quando Cossiga depose, ancora molti particolari sulle indagini durante i 55 giorni del rapimento non erano noti. Furono scoperti in seguito, dalla magistratura o dalla stessa commissione parlamentare. Ma Cossiga, certamente, sapeva tutto, visto che era stato il massimo responsabile delle ricerche. Eppure su molti punti non disse la verità alla commissione. Siamo andati a rileggere il verbale dell’interrogatorio. Ecco le più clamorose inesattezze (ma più congruamente possono essere definite affermazioni false) contenute nella deposizione di Francesco Cossiga.

“QUALCOSA STA PER ACCADERE”

“Per quanto mi consta, ed ho fiducioso motivo di ritenere che tutto mi consti a questo riguardo, non risulta pervenuta alle autorità di governo, né agli organi di polizia, né ai servizi di informazione e di sicurezza, in via preventiva, alcuna notizia informativa su azioni terroristiche o che potessero far pensare in qualche modo alla preparazione di azioni terroristiche”.

Falso. Nella risoluzione strategica numero 4 delle Br veniva data ai militanti la specifica direttiva di colpire gli uomini del potere democristiano “a partire dagli organismi centrali” (Moro era presidente della Dc). Inoltre altre fonti hanno rivelato il seguente episodio. Alla questura di Roma era giunto tre mesi prima dell’agguato un avvertimento preciso e giudicato dagli esperti molto credibile: “Si sta concretamente preparando l’irlandizzazione di Roma” (Cossiga farà spesso riferimento, nella sua deposizione, al “modello irlandese” di terrorismo). La questura trasmise subito l’appunto al capo della polizia, che ne informò direttamente Cossiga. Riferisce la fonte: Cossiga fu talmente preoccupato dalla minaccia contenuta nel messaggio da mettersi le maninei capelli”. Infine: il 6 marzo era pervenuta al Sismi (tramite la branca dei servizi operante nelle carceri, diretta dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa) la segnalazione, da parte di un detenuto nel carcere di Campobasso, che “ci sarà un altro attentato a grossa personalità di Roma”.


PERCHE’ SENZA AUTO BLINDATA?

“Se debbo dare un giudizio ex post, la protezione dell’onorevole Moro era insufficiente, ma se debbo dare un giudizio rispetto all’epoca, debbo dire che la protezione era secondo gli standards comuni”.

Falso. E’ stato appurato che in quello stesso periodo personaggi di minor rilievo e responsabilità dell’onorevole Moro avevano un’auto blindata, fornita dal ministero. Moro no.

LA VETTURA DI ANDREOTTI

“Nel 1978 il presidente del Consiglio dei ministri in carica, onorevole Andreotti, non usava l’auto blindata, pur avendone la disponibilità”.

Falso. Alcuni anni dopo sono stati gli stessi brigatisti a dichiarare che, nella fase preparatoria del rapimento, rinunciarono al sequestro di Andreotti proprio perché egli era “più protetto” grazie anche all’auto blindata.

MA I FAMILIARI ERANO IN ALLARME

“A quanto mi consta, nell’autorimessa della Presidenza del Consiglio esisteva un’autovettura blindata, esattamente una “130”, e quindi, se fosse stata richiesta, avrebbe potuto essere messa a disposizione; non solo, ma se fosse stata richiesta al ministero dell’Interno, non vi sarebbe stato nessun motivo per non mettere a disposizione questa autovettura… data la confidenza che l’onorevole Moro aveva con me; devo dire che la macchina me l’avrebbe senz’altro chiesta e, se l’avesse chiesta, gli sarebbe stata data senza difficoltà. E non aggiungo altro”.

Falso. I familiari dell’on. Moro e le signore Ricci e Leonardi, mogli di due uomini della scorta, hanno dichiarato che l’auto era stata chiesta al ministero, anche perché attorno a Moro erano stati notati strani movimenti e strani personaggi. In particolare il maresciallo Leonardi era “fuori dalla grazia di Dio” perché sapeva che era stata segnalata la presenza di “brigatisti non di Roma”. Su allarmi e minacce Leonardi fece rapporto al Comando generale dei Carabinieri.

APPENDICE
«CHI NASCONDE LA VERITÀ»
Intervista di Michele Gambino a Sergio Flamigni

Le tagliatelle di casa Flamigni sono buone come sempre. Piazzato tra la bottiglia del vino e il pane, il registratore continua a incidere la cadenza romagnola del padrone di casa: «Perché vedi, in via Montenevoso…». La moglie sorride, allarga le braccia: «Sergio, almeno a tavola cambia discorso», ma poi non si perde una parola. Alle nostre spalle c’è un grande tavolo ingombro di documenti, ritagli di giornali, verbali di polizia. Sono i materiali grezzi da cui Sergio Flamigni, ex senatore comunista, membro della commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, ricava da quindici anni, le analisi e le scoperte che tanto fanno infuriare il senatore Francesco Cossiga«quel poveretto di Flamigni» – e per altri versi una parte della sinistra italiana, alcuni ex brigatisti compresi. E che costringono i Servizi segreti a tenere discretamente sotto osservazione la villetta di Flamigni a Oriolo Romano, quaranta chilometri a nord di Roma, e soprattutto il suo telefono.

«Degli insulti di Cossiga non mi preoccupo. A me, uomo di sinistra, fanno male piuttosto gli attacchi e di una parte della sinistra, preoccupata più di difendere l’identità del fenomeno brigatista che di guardare i fatti».

Ecco, parliamo dei tatti…

Prima, se permetti, vorrei sgombrare il campo da un equivoco a cui mi hanno crocefisso : io sono convinto che le brigate rosse siano state un fenomeno autonomo, con una sua dimensione storica e forti legami nelle fabbriche e nella società. E che attorno a loro, in un certo periodo, si siano sviluppate ampie aree di fiancheggiamento: l’Autonomia, Potere operaio…

Questo è innegabile.

Certo. Eppure mi dipingono come il dietrologo di professione, uno convinto che le Br fossero una emanazione della Cia e dei Servizi segreti italiani. Io invece dico solo che nel Paese di Gladio, della P2, delle deviazioni, della strategia della tensione svolta in funziona stabilizzante, nessuno può garantire che queste strutture occulte non abbiano approfittato del fenomeno brigatista. È difficile sostenere, come fanno i brigatisti, che nel periodo successivo all’arresto di Curcio le Br non abbiano avuto infiltrati nel loro gruppo. Basta pensare a un personaggio come Federico Umberto D’Amato, piduista, ex capo della divisione affari riservati del Viminale, poi consulente dei ministri dell’Interno, uomo con solidi legami negli ambienti dei Servizi segreti internazionali. Lui nel ’74 all’epoca del sequestro Sossi, disse: «noi i brigatisti li conosciamo tutti uno per uno», e fu questa imprudente dichiarazione a costargli la direzione degli affari riservati.

Fu lui, tra l’altro, uno dei fondatori del club di Berna.

Si, questo circolo in cui i capi dei Servizi di tutta Europa si riunivano periodicamente proprio per studiare le tecniche di infiltrazione nei movimenti studenteschi. E poi basta leggere le dichiarazioni recenti di William Colby, ex capo della Cia, il quale spiega che l’infiltrazione è il metodo naturale di lotta al terrorismo; o del generale dei carabinieri Nicola Bozzo, un grande esperto di lotta al terrorismo, che ha raccontato di come alcuni militari si iscrivessero all’Università, mimetizzandosi al punto da laurearsi.

Da un lato ci sono i brigatisti, o molti di loro, che negano qualsiasi infiltrazione. Dall’altro c’è un ufficiale, il generale Delfino, accusato di aver piazzato nelle Br un mafioso calabrese, Antonio Nirta, che invece di collaborare con le autorità avrebbe addirittura partecipato al sequestro di Moro. Un bel corto circuito…

È possibile che i brigatisti siano in buona fede quando affermano di non aver subito infiltrazioni. Sono sicuro, anzi, che la maggior parte di essi non si sono resi conto di molte delle cose che accadevano. Io sono convinto che gente come Azzolini, Bonisoli, la Mantovani, Gallinari e probabilmente lo stesso Moretti credessero davvero di fare la rivoluzione. Ma mentre gli uomini della prima fase brigatista, come Franceschini, ammettono ad esempio, di aver avuto rapporti con i Servizi israeliani, o considerano la possibilità di essere stati strumentalizzati inconsapevolmente, quelli della seconda leva assumono un atteggiamento incomprensibile, di totale chiusura. In nome della loro purezza finiscono per coprire gravissime responsabilità di organi e uomini delle istituzioni nelle manovre che certamente vi furono intorno al caso Moro.

Nell’elenco di brigatisti in buona fede che hai appena fatto manca il nome di Valerio Morucci. Non sembra una omissione casuale.

Non ho elementi per accusare nessuno in particolare. Su Morucci è intervenuto di recente Franceschini, il quale afferma – sulla base di sue conoscenze – che Morucci dietro la qualifica di dissociato ha agito in realtà come un pentito. Inoltre non è un mistero che la sua entrata nelle Br non fu delle più semplici: Morucci nasce come membro del servizio d’ordine di Potere Operaio, poi si dedica all’introduzione di armi e ordigni dalla Svizzera. Nel novembre del ’72 viene arrestato ma dopo un mese e di nuovo in libertà. È noto che la rapidità di questa scarcerazione insospettì i vertici brigatisti di allora, e infatti la richiesta di ingresso nella organizzazione di Morucci venne accolta soltanto quattro anni dopo nel ’76 da Mario Moretti.

Un altro capitolo oscuro è senza dubbio quello delle rivelazioni di Morucci: dalle prime affermazioni, poi ritrattate, alla storia del memoriale fatto arrivare a Cossiga, fino alle ultime rivelazioni.

Andiamo con ordine: Morucci disse durante i primi interrogatori che i partecipanti all’azione erano stati dodici, e forse di più. Poi scese a nove; in entrambi i casi, coerentemente con la sua posizione di dissociato, si rifiutò di fare nomi. Nel 1990 salta fuori la storia del memoriale. Morucci lo compila probabilmente nel 1986. Nel 1990 lo consegna in carcere a suor Teresa Barillà, una persona che ha già collaborato con i Servizi segreti in quella brutta storia che è il caso Cirillo. La suora fa pervenire il memoriale all’allora capo dello Stato Cossiga il 13 marzo del 1990. Più di un mese dopo Cossiga lo consegna al capo della polizia, e questi a sua volta lo dà ai magistrati. Ma la cosa più importante è che nel memoriale Morucci fa i nomi dei nove brigatisti che, secondo la sua versione dei fatti, parteciparono all’agguato. E non si capisce perché Morucci, che per la magistratura è un dissociato, per la Dc si comporti da vero e proprio pentito. Viene in mente una dichiarazione di Franceschini. Te la leggo: «A un certo punto ho cominciato a chiedermi: di chi abbiamo fatto il gioco: i miei dubbi sono cominciati quando settori della Dc hanno cominciato a venire da noi brigatisti in carcere. Pensavamo che venissero per cercare insieme di fare chiarezza. Invece no: mi rendevo conto che venivano da noi per conquistare silenzi».

C’è una voce che circola da tempo dentro le carceri: la voce secondo cui un emissario della Dc avrebbe trattato in carcere con i brigatisti detenuti: il silenzio sulle zone oscure del sequestro Moro in cambio di permessi e altri favori, con la prospettiva futura di una amnistia. E sgradevole parlarne, perché si parte da una voce non confermata e si mette in gioco la legittima aspirazione alla libertà di gente in galera da anni. Ma certo colpisce la disparità di trattamento carcerario, ad esempio, tra un Curcio e un Morucci. Ma tornando alle rivelazioni dello stesso Morucci, l’ultima novità è il coinvolgimento di Rita Algranati come decima partecipante.

Anche qui resta da chiarire un mistero: a me risulta da fonte sicura che nell’estate del 1993 il Sisde contattò in Nicaragua Alessio Casimirri, un altro dei partecipanti all’agguato di via Fani. Mi è stato riferito che fu Casimirri, marito separato della Algranati, a fare questo nome. La cosa rimase segreta finché, in coincidenza con l’esplodere del caso DelfinoNirta, Morucci decise improvvisamente di piazzare sulla scena dell’agguato la Algranati, anche se in un ruolo secondario. Mi chiedo se dietro il balletto delle rivelazioni non ci sia la volontà di fare polverone, o peggio ancora se intorno al caso Moro non si giochi uno spezzone della lotta intestina tra Servizi segreti.

Resta comunque il fatto che tutte le versioni dei fatti fin qui proposte da Morucci sono incomplete: una perizia dell’ottobre `93, ordinata nell’ambito del quarto processo Moro, ha stabilito che in via Fani spararono sette armi, e da entrambi i lati della strada. Morucci aveva parlato di sei armi e di colpi provenienti da un solo lato. Resta il mistero del formidabile killer che sparò 62 dei 97 colpi esplosi in via Fani. E a questo punto, fatalmente, tocca parlare delle rivelazioni del pentito Morabito sulla presenza di Antonio Nirta nel commando.

Su questo io non ho informazioni di prima mano, e l’ipotesi del coinvolgimento di un uomo della ‘ndrangheta in via Fani – per di più un personaggio che agirebbe su mandato di un carabiniere – è così preoccupante che dobbiamo essere molto cauti. Certamente sulle presenze calabresi intorno al sequestro Moro c’erano già da anni molti elementi concreti, dalla storia arcinota delle foto sparite agli strani viaggi di brigatisti e inquirenti in Calabria prima e durante il sequestro. Di recente – dopo averlo taciuto a lungo – l’ex deputato democristiano Benito Cazora ha detto che pochi giorni dopo il sequestro i suoi informatori calabresi lo condussero nei pressi di via Gradoli, spiegandogli che lì eratenuto Moro. Bisogna quantomeno chiedersi come facessero i mafiosi a essere così bene informati, dal momento che in via Gradoli c’era effettivamente un covo brigatista.

E che covo: insieme alla base milanese di via Montenevoso – quella dei memoriali di Moro – via Gradoli è il luogo in cui si concentra il maggior numero di misteri del caso Moro: i calabresi lo conoscono, il suo nome salta fuori nel corso di una seduta spiritica a cui partecipa Romano Prodi, tre poliziotti arrivano davanti al suo ingresso ma lasciano perdere perché nessuno risponde alla scampanellata, infine qualcuno degli occupanti vi calamita la polizia con il trucco dell’allagamento. Nell’ultima edizione del tuo libro, “La tela del regno”, tu aggiungi una nuova perlina a questa collana di misteri…

Sì. Di fronte a me ad altri due testimoni l’ex ufficiale dei Servizi Antonio La Bruna ha dichiarato che il 17 marzo, un giorno dopo il sequestro Moro, il Sismi ricevette una segnalazione di via Gradoli.

E infatti il 18 la polizia va sul posto, ma non trova nessuno. Una volta tanto le cose quadrano.

Sì, ma La Bruna dice anche che il Sismi conosceva l’identità dell’informatore. Ma non lo ha fatto al magistrato. Eppure sarebbe stato un particolare prezioso. Teniamo conto del fatto che a quindici anni di distanza dal sequestro non sappiamo ancora nemmeno quante furono le prigioni di Moro.

Secondo Giorgio Bocca intorno a via Gradoli non c’è nessun mistero. I poliziotti rinunziarono a intervenire soltanto per paura. Lui e molti altri insospettabili e autorevoli commentatori, anche a sinistra, leggono i misteri del caso Moro come un lungo elenco di cialtronerie. Una storia molto italiana insomma.

Ci furono senza dubbio deficienze e approssimazioni. Ma non bastano a spiegare tutto. La paura dei poliziotti può chiarire uno dei misteri di via Gradoli, non gli altri. E via Gradoli è solo un episodio. Prendiamo la ricostruzione dell’agguato: a un certo punto compare un misterioso uomo con la paletta, che dirige il traffico e poi scompare nel nulla. Secondo Bocca si tratta di una invenzione. Ma ci sono due testimoni. Oppure i due uomini a bordo della moto Honda, che sparano al motorino dell’ingegner Marini. Tutti i brigatisti negano che quei due fossero dei loro. Eppure esistono, ne parlano ben tre testimoni.

All’inizio dicevi: stiamo ai fatti. Vogliamo elencare quelli che risultano inspiegabili se non si ipotizza la “tela di ragno”, vale a dire quella serie di coperture – probabilmente non richieste – che sembrano accompagnare tutta l’azione brigatista durante i 55 giorni del sequestro?

L’elenco è davvero lungo. Io mi limiterei agli interrogativi fondamentali: Perché tutti gli uomini scelti dal ministro Cossiga per seguire le fasi del sequestro sono iscritti alla P2? Perché, malgrado le molte segnalazioni, il covo di via Gradoli non viene individuato subito? Chi e perché decide a un certo punto di farlo scoprire accelerando in questo modo la decisione del vertice Br di uccidere Moro? Perché le Br utilizzano durante il sequestro una stampatrice che viene dall’ufficio “Rus” (Raggruppamento Unità Speciali) del Sismi, l’ufficio di Gladio? Perché il giudice Infelisi fa sparire il rullino contenente la foto in cui si vede l’uomo della ‘ndrangheta in via Fani? Chi ha manipolato o fatto sparire molte delle intercettazioni telefoniche effettuate durante il sequestro del presidente della Dc? Perché le Br decisero di non rendere pubbliche le rivelazioni di Moro sulla strategia della tensione e su Gladio, i suoi giudizi su Andreotti e Cossiga? Quali uomini del potere vennero in possesso all’indomani della scoperta del covo di via Montenevoso, del memoriale di Moro scoperto soltanto nel 1990 in una intercapedine del muro? Chi ha in mano le trascrizioni complete, o addirittura le bobine registrate, degli interrogatori di Moro in carcere? Leggendo il memoriale appare evidente che Moro rimanda spesso a capitoli delle sue rivelazioni che sono spariti. Perché non è stato fatto nessuno sforzo per individuare il luogo in cui si riuniva il comitato esecutivo delle Br; quello, per capirci, presso cui si recava Moretti periodicamente, e in cui venivano battuti macchina i comunicati che scandirono il sequestro. C’erano indizi che portavano nella zona di Firenze, ma furono lasciati cadere. E infine: qual è il filo che lega il caso Moro ad altri due misteri italiani, gli omicidi di Carmine Pecorelli e di Carlo Alberto Dalla Chiesa? Dalla Chiesa è l’ufficiale che gestisce l’operazione di via Montenevoso, quella sera stessa i suoi uomini lo accompagnano all’aeroporto di Milano e alle due del mattino, secondo la testimonianza di Franco Evangelisti, Dalla Chiesa si presenta ad Andreotti. Pecorelli, giornalista legato ad ambienti dei Servizi e alla P2, sa molte cose del caso Moro. Ricordiamo che il suo settimanale, “Op“, esce in edicola proprio nei giorni del sequestro, e inizia una campagna distampa che riguarda lo scandalo Rateasse, Caltagirone e Arcaini. Gli stessi temi sui cui si sofferma, all’interno della prigione del popolo, Aldo Moro.

E un lungo elenco…

Potrebbe esserlo di più. Contrariamente a quanto dice il senatore Cossiga, che ha più volte pubblicamente elogiato i magistrati che hanno condotto le indagini sul sequestro Moro, su un dato credo che noi cosiddetti “dietrologi” e coloro che la pensano come Giorgio Bocca, possiamo trovarci d’accordo: non esiste altro caso giudiziario in cui le indagini siano state condotte, nel corso di molti anni, con tanta superficialità e sacrificio della verità. È impressionante la differenza di analisi investigativa sprigionata durante il sequestro Sossi rispetto al caso Moro. Del rapimento del magistrato sappiamo tutto nei dettagli; di Moro molto poco. Eppure la differenza di peso tra i due episodi è evidente, e oltretutto all’epoca del rapimento di Sossi, il 1974, lo stato delle conoscenze sul terrorismo era di molto inferiore a quello che se ne aveva quattro anni dopo. Vedendo “Jfk“, il film sul delitto Kennedy, ho trovato una serie impressionante di analogie col caso Moro. Anche quello è un delitto politico, anche quella è una vicenda in cui le indagini vengono condotte con incredibile timidezza e reticenza. Con la differenza che nel caso Kennedy a un certo punto emerge la figura del Procuratore Garrison, che combatte contro i depistatori alla ricerca della verità. Da noi un personaggio equivalente purtroppo non è esistito. Almeno tra i magistrati.

Periodicamente – in momenti delicati della vita politica – emergono nuove rivelazioni sul caso Moro. Cosa vuoi dire?

Dietro ogni segreto del sequestro Moro ci sono dei depositari – beneficiari di quel segreto. Abbiamo parlato dei materiali di via Montenevoso, ma c’è dell’altro. Ad esempio i rapporti sullo stato delle indagini che pervenivano quotidianamente al comitato di crisi, riunito al Viminale sotto la direzione di Cossiga. Essi non pervennero mai né alla commissione Moro, né a quella sulle stragi che li ha chiesti più di recente. Chi detiene questo tipo di carte detiene un potere che può far valere in un determinato momento.

Questo è per l’appunto un momento delicato per i poteri paralleli. C’è in corso una lotta feroce all’interno dei servizi di sicurezza…

E infatti, come sempre, rispunta il caso Moro, che è una vera miniera di misteri. La situazione mi ricorda da vicino il 1974, quando all’interno del Sid era in corso la faida tra Miceli e Maletti; anche quella fu una fase molto ricca di rivelazioni, i magistrati poterono fare un buon lavoro: i golpe, la Rosa dei Venti. Il fatto è che finché sul caso Moro la magistratura sia accontenterà della versione ufficiale dei fatti e delle dichiarazioni dei brigatisti, il campo verrà lasciato libero a chi gestisce pezzi di verità a proprio uso e consumo.

Abbiamo parlato a lungo. C’è qualcosa che è rimasto fuori dalla nostra discussione?

Vorrei solo che fosse chiaro che se dopo 15 anni siamo ancora a questo punto la responsabilità è dovuta al fatto che i primi a non volere la verità sono i due uomini politici che il maggior ruolo hanno svolto intorno a questa vicenda; e mi riferisco ovviamente a Giulio Andreotti e Francesco Cossiga. Entrambi tacciono su quello che sanno.

(di Sergio Flamigni e Michele Gambino)

6/fine…
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9 Commenti

  1. scusate… non c’entra ma…
    Ostaggio italiano ucciso in Iraq. Berlusconi è scomparso nella sua villa in Sardegna (ponte pasquale prolungato, forse) e Frattini era in diretta da Bruno Vespa. E c’è rimasto.

  2. No! cancellato il post di Lia, non rimane più traccia della guerra dei cloni. Peccato.

  3. vorrei dirvi semplicemente,quanta indignazione smuove ancora in me,sapere che la verità che ci è data non corrisponde neanche alla metà delle Ns.aspettative.Ma il cinismo,ed un rapporto di lavoro avuto con un importante ente dello stato,
    mi rammentano che l’antistato esiste,ed ha vita lunga,come un’idra.Vivo con Qs.consapevolezza,le mezze verità sono solo palliativi…..

  4. Ci sono tanti libri da leggere sull’argomento ma pochi punti oscuri relativamente alla vicenda Moro dal punto di vista delle BR. Come facevo notare a Fabrizio nel post precedente, basta leggersi le trescrizioni degli interrogatori dei partecipanti al sequestro. Certo gli apparati deviati dei servizi segreti hanno fatto il loro sporco lavoro, in funzione della situazione politica di quei tempi, ma v’invito a riflettere su questa frase del libro: “una perizia dell’ottobre `93, ordinata nell’ambito del quarto processo Moro, ha stabilito che in via Fani spararono sette armi, e da entrambi i lati della strada.”. C’è qualcuno fra di voi che mi spiega come sia possibile sparare da due lati opposti senza il rischio di colpirsi a vicenda?

  5. “alcuni militari si iscrivessero all’Università, mimetizzandosi al punto da laurearsi.”

    Ditemi qual’è l’università che deve essere meglio del CEPU…

  6. Grazie per avermi rinfrescato la memoria, sono sempre più fiera di condividere la cittadinanza con l’uomo più informato d’Italia… Per fortuna Entico risolleva un po’ le sorti della demo-massonica Sassari (per eventuali querele potete contattarmi all’e-mail che troverete sul mio blog, così mi becco la denuncia ma anche un accesso in più…)! A parte le battute lodevole iniziativa, complimenti!

  7. Errata corrige: nel commento precedente ho scritto “Entico” pensando logicamente ad “Enrico”… logicamente Berlinguer

  8. Chi coprono le BR? Perché nascondono fatti? Non sono state in grado di dire chi e quanti erano quelli che componevano il commando, né chi sparò a Moro. Ogni tanto sbuca un qualcosa di nuovo e mai detto negli anni. Ciò è ridicolo in un qualunque paese civile. Mancano le palle per andare fino in fondo.

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