DDoS

(l’origine di questo racconto è spiegata qui)

Sia chiaro: non è che prima non ci rendessimo conto di quanto importante e utile fosse per noi internet. Ma aveva questo difetto: era lì, a nostra disposizione, quando volevamo. Come una fidanzata innamorata e non ricambiata. Succede a tutte le cose con cui cresci: alla fine le dai per scontate, fanno parte dell’arredamento, del paesaggio. Come l’aria. Ci capita per caso di apprezzare l’aria solo perché la possiamo respirare? No, ma dovremmo. Perché un giorno avevamo internet, e il giorno dopo non c’era più.

È successo il 4 febbraio del 2022, alle 6 del pomeriggio. Poi, il panico globale. Il mondo intero non riusciva più ad accedere alla rete cui aveva affidato soldi, foto, racconti, amicizie, ricordi, appuntamenti, documenti importanti, nomi e indirizzi, e nessuno aveva modo di raccontarlo, chiedere cosa fosse successo, farsi rassicurare che presto sarebbe tornato tutto a posto: Internet non c’era, non era lì a raccogliere i “What The Fuck?” del pianeta.

Su un vecchio libro di fan fiction un po’ abbracciaalberi che però ha riscosso un discreto successo nello scorso millennio, la Bibbia, la frustrazione era rappresentata dalla voce di un uomo che gridava nel deserto. E se è vero che noi potevamo ancora gridare, volendo, il deserto invece non era più a disposizione.

Arrivammo a sera – parlo di me e del resto dell’umanità – con qualche difficoltà, ma ancora sostanzialmente ottimisti: c’era chi ci scherzava su e dipingeva scenari apocalittici che oggi, come si dice, averceli; chi era alla terza crisi di panico; chi tornava a casa perché con i computer legati come cani in giardino non c’era modo di svolgere il lavoro; c’era chi chiedeva soldi in prestito perché non era possibile prelevare, dal momento che i Bancomat erano tutti in rete, così come i circuiti di carte di credito e l’infrastruttura telefonica in generale. Nel corso degli anni, tutto era stato trasferito in rete, al punto che la rete era diventata tutto. Ma diciamoci la verità – la maggior parte di noi provava un senso di frustrazione che al momento era per noi indefinito e difficilmente spiegabile, ma che in futuro, col senno di poi, avremmo immediatamente individuato nel fatto di essere costretti a condividere la situazione con le persone che ci trovavamo casualmente accanto – colleghi di lavoro, vicini di casa, familiari -, e non con le nostre abituali cerchie di amici veri online.

I primi a cadere come coniglietti tamburellanti dalle pile scariche furono migliaia di malati di cuore che erano stati operati di cuore di recente e utilizzavano il POC, il “Peacemaker On The Cloud”, che ovviamente era stato progettato per funzionare anche in caso di un blackout totale della rete ma che, senza la rete, non poteva dosare correttamente le medicine in relazione a come era andata la giornata e al reale fabbisogno di ciascuno. In assenza di collegamento, il POC prescriveva la dose media generica, un po’ come facevano i medici di una volta. I loro fisici erano abituati a una dieta basata su raffinati dosaggi da gourmet, mentre invece, tutto d’un tratto, era partita l’abbuffata a prezzo fisso all’osteria dei medicinali. Creparono in tantissimi.

Poi fu la volta dei conducenti di Uber. Fu una scena straziante: li trovarono accatastati a mucchi nelle officine dove i tassisti li avevano costretti ad attendere le chiamate dei clienti. Ma poi, occhio per occhio, fu il turno dei tassisti: massacrati da una folla inferocita un po’ per vendetta nei confronti degli autisti di Uber caduti, un po’ perché francamente – dopo tutto questo tempo e le manifestazioni, e gli scioperi, e i blocchi del traffico nelle ore di punta, e poi le spedizioni punitive, gli autisti concorrenti picchiati – alla gente un po’ andava, di farlo. A ruota seguirono: gli scrittori, che s’appesero un po’ ovunque per non avere fatto “Salva con nome…” prima del blackout, oppure per avere perso libri interi lassù, nella fredda cloud; gli utenti di Tinder che erano riusciti a fare match con una figa da paura, e con cui era palese un’incredibile sintonia, ma che ancora non erano riusciti a ottenere non il numero di telefono (perché ormai anche i telefoni erano diventati nient’altro che testimonianze di un’epoca passata) ma almeno uno straccio di recapito non elettronico; gli utenti di Netflix dediti al binge watching e ora costretti a una perpetua pausa pipì e a un ultimo cliffhanger che sapevano sarebbe ormai durato per l’eternità.

Al contempo, mentre i colossi informatici cadevano in borsa lasciando dietro di sé più vittime del black tuesday originale, alcune cartolerie di quartiere riuscirono a lanciare un’IPO e a quotarsi. La penna Bic, che prima del blackout su Amazon veniva via a pochi centesimi per 50 pezzi, un mese dopo se la comprò intera, Amazon.

Andò meglio a chi era pronto alla conversione, o a chi ci era già passato: Nokia, ad esempio – che anche se non lo sanno in molti, iniziò come fabbrica di carta igienica -, in seguito all’oscuramento di internet, tornò alla carta igienica, garantendosi una certa floridezza rispetto a un passato incerto dovuto anche al fatto che, al di là del blackout e della carta igienica, quella cosa dei telefoni non era finita nel migliore dei modi.

Vi fu anche un discreto periodo di caos nel campo della grande distribuzione. Nel senso che non esisteva ormai più, la grande distribuzione, soppiantata dagli ordini online e dalle consegne direttamente a casa. A un certo punto gli ordini non avevano più modo di arrivare; i fattorini non avevano consegne da fare; la merce deperiva stipata in splendidi magazzini robotici superautomatizzati all’interno dei quali robot completamente ubriachi sbattevano contro ogni stipite correndo all’impazzata in qualsiasi direzione, in mancanza di una direzione.

Come appunto dicevo, il caos.
E se per caso vi steste chiedendo chi l’ha iniziato, ci sono qui io a rispondervi: noi. Noi e loro. Tutti assieme. Un pianeta di idioti pronti per primi a negarsi un piacere pur di negarlo anche al prossimo. Come fratelli stupidi, divorati dalla gelosia.

Intorno al periodo di Natale del 2016, gli Stati Uniti sostennero pubblicamente che alcuni hacker russi avevano tentato di influenzare il risultato delle elezioni presidenziali, forse riuscendoci, chissà. Dichiararono inoltre che non era la prima volta, e che in questo caso ci sarebbero state ripercussioni, anche gravi. La prima – un po’ da telefilm – fu quella di espellere 35 diplomatici russi (qualche giornale si avventurò nel definirli propriamente “spie”) operanti sul suolo statunitense.
La seconda azione fu quella che innescò lo stato delle cose attuale: pochi giorni prima che la presidenza Obama si concludesse, gli Stati Uniti lanciarono un cyberattacco come non ce ne erano mai stati contro Russia e Cina. Durò 72 ore e fu devastante. Chi lo concepì si ispirò a un colpo simile attuato qualche mese prima ai danni del nord America: nell’ottobre precedente, infatti, il sabotaggio russo a una delle maggiori società che gestivano i DNS negli Stati Uniti portò al blackout di internet e rese irraggiungibili per ore, tra gli altri, Twitter, Spotify, Reddit, PayPal, eBay e Yelp. I giornali, il giorno dopo, parlarono del “più grande attacco DDoS della storia”, e si scoprì che gli hacker russi lo portarono a termine utilizzando l’”Internet of Things”, ovvero le debolezze di tutti quegli elettrodomestici e apparecchi che collegavamo a internet con una certa noncuranza, e poi lasciavamo lì a sonnecchiare, esposti al mondo senza la protezione di una password che non fosse una barzelletta o quella, sempre uguale, di sistema. Utilizzarono frigoriferi, baby monitor, lampadine, robot giocattolo, braccialetti per il conteggio dei passi, termoregolatori per ingolfare – letteralmente – la rete internet con un numero di inutili richieste insostenibile. Questo significa DDoS: “Distributed Denial of Service”. E non esiste un vero rimedio, se non aspettare che chi sta attaccando la smetta. Noi stiamo aspettando da allora.

Perché quella volta gli Stati Uniti non ci andarono con le molle: per 72 ore intere in Russia e in gran parte della Cina fu letteralmente impossibile utilizzare un computer collegato a una rete che non fosse quella locale. Il che si tradusse nel blocco totale del commercio per tre giorni interi. Niente spostamenti di grossi capitali, ma nemmeno piccoli acquisti con carta di credito; niente prelievi agli sportelli automatici; niente pagamento delle bollette; niente riscossione degli stipendi.

Per farla breve, Russia e Cina risposero ciascuna per conto suo a qualche giorno di distanza, con due differenti attacchi. Il primo lascio letteralmente al buio parte degli Stati Uniti: New York, Chicago e Atlanta per prime sperimentarono l’interruzione dell’energia elettrica a causa dell’irruzione degli hacker cinesi all’interno del sistema di controllo di alcune centrali. I russi andarono invece giù con la mano pesante: un attacco DDoS continuo che rese inaccessibile la rete internet per una settimana e mezza. Undici giorni in cui chi c’era vide il mondo tornare in ginocchio dalla posizione eretta: qualsiasi attività richiedesse l’accesso alla rete venne preclusa a un mondo che faticosamente aveva sopportato la transizione dall’analogico al digitale, e che ormai non aveva più i mezzi e le competenze per poter tornare analogico.

Io ero un ragazzino, a quei tempi, e ricordo che la cosa che mi faceva andare più in bestia, in quei giorni, fu la mancanza di Shazam. L’idea che quel motivetto che avevo in testa: bam bam badabùm bam bam, rimanesse senza un titolo, un autore, un compositore e potessi per questo motivo non riascoltarlo mai più mi faceva impazzire.
E infatti fu quello che feci: impazzii.

Ma non impazzii da solo: lì con me, a farmi compagnia, c’era l’intero pianeta.

A rappresaglia seguì immediatamente un’annunciata contro-rappresaglia, e tutta la situazione scivolò gradualmente e inesorabilmente nella normalità man mano che il mondo si abituò a fare a meno di ciò che aveva con fatica conquistato. Ci abituammo ad avere il mercato nero al posto dell’e-commerce, e una serie di antichità ritornarono inaspettatamente di moda: i francobolli, l’inchiostro, la carta, i giornali, le edicole, gli orologi, le pellicole, le radio, le monete. Il vinile e le audiocassette no, quelli non tornarono: la musica continuava a essere ascoltata sui computer e sulle chiavette USB grazie ai previdenti l’avevano scaricata, invece che ascoltarla in streaming,

Oggi la stabilità politica è garantita da una rete DDoS permanente (in parte gestita dagli Stati Uniti e dai suoi alleati europei, in parte da Russia e Cina) che permette a ciascuna superpotenza di imporre il medioevo all’altra. Una sorta di equilibrio del terrore al contrario: come nel corso della guerra fredda del millennio precedente il principio della mutua distruzione assicurata garantì la pace a colpi di incremento degli armamenti, l’attuale armonia tra i popoli è assicurata dal regresso collettivo. Significa che se nessuno può condividere la conoscenza e utilizzarla per migliorarsi, per progredire, allora nessuno ha il potere, quindi tutti hanno il potere.

La rete DDoS è ormai la norma, nutrita dal lavoro incessante di centinaia di milioni di server che si sforzano di creare interferenze, di alzare il volume e incrementare il rumore ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Internet non esiste praticamente più. I ragazzini si sforzano di ricordarne il nome. Chiamiamo Internet, oggi, i blackout della rete DDoS: quando quei pochi hacker idealisti che sono rimasti riescono a creare un buco, una discontinuità nella rete DDoS, ecco, quella per noi è Internet. Una specie di virus buono: una mattonella inspiegabilmente pulita nel cesso di una rete ingolfata dalla sua stessa spazzatura. E per quanto mi riguarda nel corso degli ultimi dieci anni ho avuto la fortuna di riuscire a entrarci per ben tre minuti, ventotto secondi e sei decimi comulativi. Tanto è bastato per scaricare, a caso: una ricetta dei muffin al rabarbaro; una ricostruzione della battaglia di Qadeš, combattuta sul fiume Oronte dagli Ittiti; il ritornello e parte di una strofa di una canzone di un oscuro cantante inglese di quasi un secolo fa, che cantava queste parole, se sono riuscito a riconoscerle tutte: “Near a tree by a river / There’s a hole in the ground / Where an old man of (boh, qui non ho capito cosa dice) / Goes around and around / And his mind is a beacon / In the veil of the night…”; e, infine, una delle cose che mi è più cara: il frammento di una gif deteriorata da cui, col tempo, sono riuscito a ricavare il particolare degli occhi di una vecchia attrice fotografata quando aveva diciott’anni e si chiamava, credo, Winona, o qualcosa del genere. Questa è internet per me, e il solo pensiero che possa contenere altre cose di uguale splendore è ciò che contribuisce a farmi alzare dal letto ogni giorno.


Esiste, in realtà, un modo per entrare in internet, solo che non è affatto simile a quello di un tempo. Funziona così: un giorno un gruppo di attivisti online che oggi riconosciamo ufficialmente come “La Resistenza” e la cui origine si perde nel corso dei tempi, ha dichiarato di essere in grado di scaricare da Archive.org – un vecchio progetto del Congresso americano che si proponeva l’archiviazione ricorsiva di tutto il web -, un intero giorno di internet e di poterlo rendere pubblico copiandolo e distribuendolo su chiavette USB. Chiunque leggesse la stampa clandestina fu invitato a scegliere un giorno felice per sé o per l’umanità, scelto tra quelli del passato, e di votarlo.
La procedura di votazione non era affatto semplice: per evitare di essere intercettati e magari essere accusati di spionaggio – come spesso è successo a chi ha espresso i propri dubbi sulla rete DDoS – bisognava scrivere la propria data preferita a matita su un foglietto e poi consegnarla alla rete Hp2p, che si sarebbe occupata – con molta probabilità – di fare arrivare la maggior parte delle schede di votazione agli addetti al conteggio.
“Hp2p” è l’acronimo che sta a indicare la rete peer to peer composta da persone in carne e ossa (l’acca sta per “human”), il cui funzionamento può sembrare difficile da spiegare, ma in realtà non lo è affatto: in mancanza di internet gli umani si sono industriati per ricostruire qualcosa di simile utilizzando strumenti e materiali analogici, e questa è la cosa migliore che ne è venuta fuori. Funziona, in pratica, come il “Ce l’hai”, o il “Tua suora”: quando devi fare sapere qualcosa a qualcuno lontano – e non vuoi affidarti alle poste statali che notoriamente chiedono almeno tre quarti dello stipendio medio di un dirigente di seconda categoria solo per inoltrare una cartolina postale – lo scrivi su un foglietto rigorosamente a matita, lo pieghi in quattro, scrivi sul lato esposto il nome del destinatario e un’indicazione sul luogo in cui dovrebbe trovarsi, poi lo consegni letteralmente al primo che passa, nella sicurezza che lui farà altrettanto il più presto possibile con la prima persona che incontrerà. Non importa a chi o quanto lontano debba andare quel biglietto: la legge delle probabilità dice che prima o poi forse ci arriva. Magari non subito. Magari non facendo il giro più corto. Ma forse ci arriva.

Io, ad esempio, ho votato per il 19 agosto 1998, per motivi miei: mi limito a dire che era un giovedì, era pomeriggio, tuonava come dovesse piovere, e fui giovane e sereno e avventato e in armonia con il tutto come poi non lo sono mai stato più. E, certo, ovviamente c’entra una ragazza.
Altri hanno fatto scelte meno personali: in tanti, ad esempio, hanno votato per il 10 settembre 2001, il giorno prima dell’attacco alle Torri Gemelle; altri per il 4 novembre 2008, quando fu eletto Barack Obama, o il 19 gennaio 2017: il suo ultimo giorno di mandato; qualcuno scelse il 12 febbraio 2015, quando New York stabilì il record di 12 giorni senza un omicidio; o ancora, sempre dal 2015, il 18 dicembre, perché fu il giorno in cui uscì “Star Wars – Il risveglio della forza”. Ma, insomma, quella di convergere su un’unica data che andasse bene a tutti non fu affatto una scelta facile per l’umanità: a nessuno era mai venuto in mente di raccogliere dati sulla felicità media percepita dagli esseri umani, e fu quindi impossibile stabilire quale fosse stato un giorno felice più di un altro per la maggior parte della popolazione terrestre.

A un certo punto fu chiaro a tutti che non se ne poteva venire a capo, e così si scelse di lasciare decidere la sorte. Tra i tre miliardi e rotti di partecipanti fu estratto il nome di Xiong Peizhong, un contadino cinese di 76 anni del villaggio di Zengchong, nella regione di Guizhou, che scelse il 4 settembre 2003 perché, nell’anno della migliore raccolta del riso, quello fu il giorno in cui la gallina di casa gli fece due uova in una volta sola.

Io però per qualche motivo resto convinto che per Xiong quello fu il 4 settembre dei suoi sedici anni, e che in qualche modo anche per lui fosse un giovedì (lo era, ho controllato), fosse pomeriggio, tuonava come dovesse piovere, c’entrasse una ragazza, e lui fosse giovane e sereno e avventato e in armonia con il tutto come poi non lo è stato mai più. E poi, certo, alla fine c’era anche la cosa delle due uova al posto di una.

Ma è grazie allo zabaione con l’ovetto sbattuto extra di Xiong se in quasi tre miliardi abbiamo ricevuto una chiavetta USB contenente ciascuna un piccolo pezzo di web, e ogni mattina fingiamo di controllare la nostra pagina su Geocities e tra l’altro siamo molto convinti che l’acquisto da parte di Yahoo! valorizzerà la community: se non ce la fanno loro chi potrebbe mai riuscirci, quei ragazzini di Google che hanno rifiutato di vendere a Microsoft e hanno in testa quella follia di quotarsi in borsa da soli?; ci scandalizziamo per il bacio a tre tra Britney, Christina e Madonna; pensiamo che ormai alla quarta edizione il Grande Fratello abbia francamente un po’ rotto le palle; ridiamo con Little Britain; e siamo un po’ tutti presi dai nostri nuovi Nokia 3200 che – non lo dico per vantarmene, ma in fondo un po’ sì – è finalmente capace di riprodurre suonerie polifoniche ed è il primo a montare una fotocamera da ben 640×480 pixel. A questo punto non so davvero che cosa potremmo davvero volere di più da un telefono: che si metta a riprodurre MP3?

Scegliere di vivere e continuare a rivivere il 4 settembre 2003 è la nostra forma di protesta contro l’istituzione e il mantenimento della la rete DDoS che ci avvolge con questa permanente nebbia di conoscenza. Ed è anche un modo per riconoscerci e farci coraggio a vicenda.

E quando ci annoiamo perché abbiamo ormai letto tutto nel piccolo pezzo di web che custodiamo nella nostra chiavetta, la scambiamo con quella di qualcun altro, contenente un altro pezzettino di 4 settembre 2003. Si scende in strada, si passeggia un po’ e, magari in presenza di un capannello di persone, si grida con nonchalance, ma con decisione: “cambio!”, e si trova sempre qualcuno pronto a lanciarci la sua chiavetta e a ricevere la nostra. È un procedimento che dura tre secondi, massimo, e va sempre a buon fine. Un po’ come dare il cinque: nessuno è così stronzo da lasciarti con la mano sospesa per aria come un fesso. Ma tornando alla chiavetta: a me, ad esempio, ieri è capitata la pagina di un forum in cui quella che credo essere una ragazzina si lamenta molto del nuovo taglio di capelli di un certo David Beckham, opinione che la ragazzina ritiene sicuramente condivisa da tale Posh Spice, amica sua, o forse conoscente stretta dell’infaustamente sforbiciato.

Il 4 settembre 2003 in fondo va bene, dai: è vero che non è abbastanza tardi per evitare Internet Explorer, ma ha il grande vantaggio di arrivare prima del 4 febbraio 2004, ovvero il giorno in cui è nato Facebook, per dire. E comunque è tutto quello che ci resta e di cui ci dobbiamo accontentare fino a che la rete DDoS non svanirà nel nulla, portandosi dietro il nulla che ha così efficacemente distribuito e alimentato in questi anni.

Non sarà facile e no, non accadrà domani, ma siamo in tanti e tutti capaci di ricordare di avere visto e avuto di meglio, ma soprattutto di essere stati persone migliori noi, quando avevamo a disposizione i mezzi e la possibilità di imparare cose nuove e lo facevamo: non per soldi e non per potere (o, meglio, non solo per soldi e potere), ma per scelta, perché ci piaceva, perché potevamo.

E così ve lo dico io che cosa ci salverà, alla fine: gattini. No, sto scherzando: gattini. Ogni volta che un componente di quella che chiamiamo la Resistenza riesce a accedere a un pezzettino di rete – come a me è capitato quando sono riuscito a salvare i miei tre preziosi reperti – scarica ciò che trova e rimpiazza il tutto con foto di gattini. Ogni piccola o grande défaillance di un server, in qualsiasi parte del mondo, richiama combattenti che piazzano orde di gattini. Ogni blocco di dati che sparisce, viene cancellato o si perde per la rete, viene subdolamente rimpiazzato da foto di gattini. E un po’ come fa Anonymous con Guy Fawkes, quando la Resistenza colpisce, lasciando dietro di sé solo gattini e distruzione, distruzione e gattini, la firma è quella di uno pseudonimo collettivo: Er Bagatta. Perché può non essere chiaro a tutti, ma per sentire pressante l’esigenza di lottare contro il male, dal momento che il male, si sa, si prende sempre troppo sul serio, essere un po’ deficienti aiuta.

Quindi gattini, gattini ovunque, fino a quando anche la rete DDoS non traboccherà di gattini fino ad esserne annientata, rimpiazzata da un flusso felino perpetuo che garantirà all’umanità di misurarsi, competere e migliorarsi nell’attività che ha maggiormente a cuore, e per la quale sentì l’esigenza di creare internet in prima istanza: condividere foto di gattini.

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3 Commenti

  1. è la prima volta che capito su macchianera.. mi hai strappato un sorriso dolce/amaro!

  2. Passatomi da un amico. Molto divertente! Secondo me però dovresti rivedere il periodo dei colossi che cadono in borsa e la Bic che si compra Amazon: anche la borsa sarebbe stata ovviamente in blackout.
    Complimenti in ogni caso!

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