Quella riforma a quota 20

Le feste a cavallo tra il 2009 e il 2010 sono state dominate dal dibattito sulla riforma fiscale, lanciato a più riprese dal centro-destra con le ripetute interviste a Tremonti sulla necessità di riformare uno schema impositivo che risale agli anni ’70 e con l’appoggio da novanta di Silvio Berlusconi, riemerso dalla convalescenza post Tartaglia con un sacco di buone idee, a suo dire, purtroppo prontamente “Tremontate” (un neologismo per dire delle idee di Tremonti che tramontano da sole) subito dopo la Befana. Perché non se ne farà nulla, ammissione di Giulio, prima del 2013. Guarda caso scadenza elettorale.

Continua a prevalere, nell’impostanzione dei “falchi” del Ministero del Tesoro, l’idea che l’immobilismo in tempo di crisi economica sia la soluzione migliore per non peggiorare la situazione delle casse pubbliche (che non sempre le conseguenze seguono le intenzioni, dato che ci sono almeno 100 miliardi di debito in più negli ultimi 12 mesi). Si teme, in un periodo di turbolenza, di fare qualcosa che comprometta per sempre la stabilità, di svitare la vite sbagliata, di smuovere l’assicella fatale.

Invece c’è un pezzo di riforma che si potrebbe fare proprio “grazie alla crisi finanziaria” in atto: una delle conseguenze dell’avversione al rischio emersa dopo il crollo delle borse e della politica monetaria super espansiva delle banche centrali è la corsa massiccia alle emissioni di debito pubblico di stati sovrani. I rendimenti dei BOT sono recentemente scesi sotto lo zero. Il Bund tedesco e il T-Bond americano rendono meno del 3% a 10 anni. Tutti, dai privati ai fondi di investimento e alle banche stanno comprando titoli di Stato, un po’ perché rappresentano una sorta di assicurazione contro nuovi collassi (in questo sono superiori addirittura alla garanzia pubblica sui c/c) e un po’ perché non si sa dove mettere i propri risparmi, viste anche le preoccupazioni sul mercato immobiliare.

In gergo macroeconomico si è creata una bolla sui titoli di Stato, un eccesso di domanda rigida al prezzo per cui, fino a quando non si dovesse spargere il panico sul default dei paesi maggiori (come avviene parzialmente per la Grecia in queste ore), i sottoscrittori accetteranno qualunque rendimento, anche nullo, pur di parcheggiare i propri soldi in Bot, Btp e Cct. In una situazione di questo tipo, ridurre il rendimento tramite aumento del prelievo fiscale non avrebbe alcun effetto sulla richiesta perché i sottoscrittori non sono troppo attenti al rendimento, o non vedono alternative. Se si alzasse dall’attuale 12,5% al 20% la tassazione delle rendite finanziarie l’impatto sul comportamento dell’investitore sarebbe praticamente nullo e non si avrebbe, come paventato in altri periodi storici, uno <em>shift</em> di domanda su altre attività, non si scatenerebbero vendite sui titoli governativi tali da abbassarne i prezzi e alzarne i rendimenti, con maggiori interessi pagati dallo Stato (motivo sempre accampato, la “partita di giro”, per affossare la riforma delle aliquote).

Nel 2009 lo Stato Italiano ha speso circa 74 miliardi di euro per pagare gli interessi sul debito pubblico. Su questi il prelievo fiscale è di circa 9,25 miliardi. Un aumento della tassazione al 20% porterebbe nelle casse dello Stato un valore aggiuntivo di 5,5 miliardi, circa il valore dell’ultima manovra finanziaria. Per le ipotesi fatte sopra l’investitore spenderebbe forse qualche mugugno ma non cambierebbe la propria propensione a investire in titoli del debito pubblico italiano. Sopratutto all’estero dove sono abitutati a ben altri prelievi sugli interessi sulle cedole, 33% negli USA, 25% in Francia e Germania.

Ecco dunque un pezzo di riforma da farsi non solo “durante la crisi” ma “grazie alla crisi”: è un momento irripetibile che durerà ancora qualche mese, poi la massa monetaria sul mercato verrà ritirata e la propensione al rischio/crisi panico si invertirà e ogni mossa sul rendimento dei titoli pubblici potrebbe decisamente impattare le dinamiche della domanda e far cadere le richieste di investimento in maniera negativa.

Quando Tremonti parla di spostare il sistema fiscale “dalle cose alle persone” ha sicuramente in mente anche il riequilibrio tra peso fiscale sulle rendite (in Italia fra le più basse al mondo) e quello sui redditi e profitti di impresa (tra i più alti al mondo). Ma poi non fa il passo successivo perché sa benissimo che dovrebbe riproporre quella tassazione al 20% dei BOT e BTP che fu l’asse a cui il centro-destra cercò di inchiodare Romano Prodi nella campagna elettorale del 2006. Finirebbe per dire una cosa giusta, demonizzata per un principio sbagliato, di pura propaganda. Sa che lo deve fare. Ma non lo farà. Perché il problema della nostra politica è che si impicca alle sue stesse parole, legandosi le mani per non fare nulla che possa dar ragione alla controparte politica, o sbugiardare sé stessa. Legarsi le mani con le proprie idiozìe. Uno sport dei politici, non degli economisti.

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12 Commenti

  1. Per principio, un governo di destra, specie se di destra padronal eversiva come il nostro, non può tassare il capitale (piccolo o grande) favorendo il lavoro.

    La destra esiste per fregare il lavoro, mica per tassare gli stock di ricchezza.

  2. beh, piti, certo che se la metti così non c’è da discutere, si spera che si voglia allineare alle democrazie capitalistiche più avanzate

  3. scusa, jonkind, ma come si fa a non metterla così come ho detto sopra? Non penserai mica che Berlusconi pensi al bene dell’Italia, specialmente se passa attraverso misure che colpiscono il (ehm) capitale?

    E’ trent’anni che tramano, a destra, fra mafia, apparati dello Stato, mezzi di informazione comprati in serie e domineddio, per portarci al livello sostanziale di una dittatura sudamericana e tu pensi che di colpo diventino socialdemocratici? Per il nostro bene?

  4. Tassare il capitale. Se ci sono arrivati persino i capitalisti (come il famoso Warren Buffett un 4-5 anni fa) nel 2020 potrebbe arrivarci anche questo governo. Nel frattempo, meglio tartassare un po`di piu`il lavoro dipendente, che gia`paga tasse 3 volte piu`alte.
    Non e`che non mi piacerebbe una discussione sul tema, anzi. E`che non vedo i capitalisti nostrani disposti a retrocedere un mezzo passo sulla difesa del profitto gratis. Per farlo dovrebbero essere imprenditori, cioe`rischiare un po`e del proprio.
    Stando alla mia ultima dichiarazione dei redditi USA (2008), anche li`il capitale e`ancora tassato al 12% (con poche eccezioni).

  5. Caro Jonkind, ho letto il tuo pezzo e l’ho trovato molto interessante.

    Desidero, al riguardo, porti alcune domande.

    La prima e la più importante di esse, che spero non intenderai eccessivamente carica di malizia, è la seguente: come è possibile, stante la tua affermazione secondo cui “i rendimenti dei BOT sono recentemente scesi sotto lo zero”, che l’innalzamento (dal 12,5 al 20 per cento) della pressione fiscale avente ad oggetto quei rendimenti riesca ad avere un qualche effetto tributario? Cioè: se il rendimento è negativo, vuol dire che non c’è; se non c’è, manca la base imponibile sulla quale determinare l’applicazione della cedolare secca, a prescindere dalla sua misura (12,5 o 20 per cento che sia).

    In secondo luogo: non ritieni che il noto problema della “fuga di capitali”, attualmente scongiurato per via delle valide argomentazioni da te addotte nell’articolo in commento, si riproporrebbe esattamente identico non appena l’andamento ciclico si invertirà? Certo, in quel momento si potrebbe tornare alla disciplina attuale, riducendo nuovamente il prelievo tributario afferente gli interessi attivi dei titoli di debito e degli altri strumenti finanziari analoghi (pronti contro termine, obbligazioni, eccetera), ma non trovi che tali oscillazioni, inevitabilmente frequenti, in ragione per l’appunto dell’andamento ciclico dell’economia, finirebbero per screditare il sistema, rendendolo troppo flessibile e, pertanto, poco sicuro? In proposito, sarebbe interessante se ti pronunciassi in merito all’eventuale retroattività delle disposizioni relative all’innalzamento dell’aliquota in discorso.

    Terzo: di norma, il patrimonio investito concerne un risparmio generato a monte, il quale ha, quindi, scontato una tassazione in precedenza. Ora, non è socialmente iniquo un sistema impositivo che preveda una pressione fiscale poco più che minimale su somme che hanno già subito un prelievo (alto o basso che sia) nel momento della loro produzione? L’elemento finanziariamente distorsivo consiste, in altri termini, nella moltiplicazione del peso tributario che tende a colpire ripetutamente la medesima entità.

    Quarto: ritieni che la tua analisi sia estensibile anche ad altre tipologie di investimento, tipo l’azionariato, o limiteresti le tue proposte a BOT e similia?

    Saluti

  6. Alessandra, lungi da me fare il difensore d’ufficio di jonkind, che da quello che leggo è certamente in grado di difendersi da solo e certamente meglio di quanto potrei mai fare io, ma dato che mi trovo fortemente d’accordo con la sua analisi, mi viene da porre le mie personali cosiderazioni, riguardo alle questioni che poni.

    Primo: quando Jonkind scrive che i rendimenti sono scesi sottozero, mi pare evidente che intenda al netto della perdita di potere d’acquisto data dall’inflazione, la cosa mi sembra sufficientemente chiara nella frase seguente: “il Bund tedesco e il T-Bond americano rendono meno del 3% a 10 anni”. Il 3% è evidentemente un valore diverso da zero, sia pure in termini nominali.

    Secondo: l’osservazione mi pare sensata, ma sinceramente non vedo dove sia lo scandalo nella decisione di operare anche attraverso la leva fiscale sui rendimenti da capitale in funzione anticiclica, se e quando le condizioni economiche lo permettano o addirittura l’incoraggino, sempre fermo restando la non retroattività dell’intervento, che altrimenti aumenterebbe in maniera intollerabile l’incertezza sui rendimenti reali netti di un investimento a lungo termine in titoli di stato. Se le possibilità di investimento alternativo diventano improvvisamente più costose (se non in termni di rendimento, in termini di rischio), ha senso, in un’ottica pura di mercato, alzare i prezzi (e in questo caso, la tassazione aumentata entrerebbe a far parte del costo dell’investimento), nè più nè meno di quanto avviene in un mercato concorrente come quello immobiliare. Ritengo comunque che l’argomento sia molto aperto alla discussione.

    Terzo: la pressione impositiva (al livello già esistente del 12,5% o ad un livello più alto, ad esempio sulla media europea del 20%) non insiste sul valore già prodotto (e risparmiato) a monte, bensì sulla variazione prodotta, nel tempo, dall’investimento di questo stesso risparmio. Infatti l’aliquota colpisce le cosiddette variazioni di valore in conto capitale (capital gains), non il valore del capitale in sè. Per intenderci, il non-investimento ha già di per sé un costo, dato dalla perdita di valore in termini reali, generata dall’inflazione, del capitale nominale non investito. Se si investe in titoli di stato, si paga quindi una percentuale di tasse, in cambio del rendimento (certo) dell’investimento stesso e la si paga solo in ragione del guadagno ottenuto.
    Non vi è nulla di iniquo in questo, dato che le prospettive alternative di investimento prevedono, ad esempio, la possibilità di investire il capitale in un’attività produttiva, il cui utile viene tassato in ragione dell’aliquota di imposta sul reddito delle persone giuridiche o fisiche o in un immobile, le cui variazioni di valore vengono egualmente tassate. Per quale motivo, quindi, solo i rendimenti (“utili”) dell’investimento finanziario dovrebbero sfuggire alla tassazione? Sarebbe, anzi iniquo il contrario. E anche economicamente pericoloso, aggiungerei, dato che sarebbe un’impostazione della politica fiscale che tenderebbe a stornare gli investimenti dalle forme produttive a quelle improduttive (economia reale vs. economia finanziaria), come peraltro già accade, con le storture che conosciamo.

    Per lo stesso motivo (e così vengo al punto quattro), ritengo che l’aumento dell’aliquota sarebbe da applicarsi esclusivamente ai rendimenti dei titoli di stato, per la loro natura di investimento virtualmente privo di rischio (casi limite come la Grecia a parte, appunto), ove la percentuale di rischio di ogni altra forma di investimento concorrente, nella particolare congiuntura economica, risulti improvvisamente più elevata che in precedenza.

    Trovo molto interessante questo argomento e soo molto curioso di leggere quali saranno le risposte date da Jonkind, dato che, come ho detto, la sua mi sembra un’impostazione assai condivisbile.

  7. Premetto che di queste cose non ne capisco nulla, ma proprio zero.
    E’ per questo che mi permetto di chiedervi:
    ma alla fine, è vero come si dice in giro che stiamo alla canna del gas e che il debito pubblico si abbatterà quando meno ce lo aspettiamo come uno tsunami di cacca sulle nostre teste?

  8. @alessandra, rispondo brevemente ai tuoi punti

    1) giusto chiarire perché nell’articolo è semplificato forse all’eccesso. i tassi stanno allo 0% sui BOT a 12 mesi ma sul debito a medio-lungo termine, cioè BTP e CCT che rappresentano l’80% del debito, oscillano dal 2 al 4% in base alle scadenze. la mia indicazione è per un’aliquota dal 12,5% al 20% su TUTTO il debito di nuova emissione + quello già esistente. motivo per cui si vanno a tassare anche le cedole superiori allo 0. Ho citato gli interessi complessivi sul debito pagati nel 2009 perché già incorporano tassi bassi nel breve sui BOT ma anche i rendimenti di BTP e CCT emessi anni fa con cedole di vario taglio (dal 3% al 6%, ma anche superiori sui titoli emessi molto tempo fa). forse nel 2010 con gli interessi ancora più magri invece di un gettito fiscale di 5,5 miliardi potremmo forse averne meno di 5, ma più o meno lo scopo della proposta rimane valido.

    2) credo che una volta eliminato il problema fiducia sulla valuta, vale a dire il fatto che il debito italiano sia garantito dalla stabilità dell’euro, il maggior fattore di destabilizzazione e la possibile origine del panico/fuga di capitali sia di fatto sterilizzato. Credo si vada verso anni di moneta in eccesso, tassi bassi, produttività stagnante, offerta industriale in eccesso. vale a dire sarà difficile trovare rendimenti attraenti nelle azioni e i titoli governativi che piaccia o no dovranno essere mantenuti in portafoglio soprattutto da banche e fondi di investimento. ci sarà domanda indotta. in fondo un aumento di 8 punti di tasse su 4% di rendimento significa meno dello 0,4% di riduzione di rendimento complessivo per un investimento sicuro. Forse 5 anni fa spostava gli investimenti, oggi non credo

    3) come fatto notare da Ubikindred, si tassano solo le cedole e il capital gains, il valore del patrimonio non viene tassato bensì restituito intatto alla scadenza

    4) ovviamente a tutti gli investimenti di capitale, inclusi i capital gain e gli investimenti azionari per non generare distorsioni sul mercato come avviene ora.

  9. Enrico Marsili,

    per quanto riguarda gli stati uniti mi sono basato sull’aliquota alla quale si tassano i dividendi azionari per investitori esteri (ad esempio sulle mie azioni acquistate a new york). dici solo il 12%? so che c’è il regime di tassazione normale nella dichiarazione dei redditi in base alla propria aliquota marginale che varia da contribuente a contribuente. non so a che livello vengano applicate aliquote sostitutive alla fonte, come il 12,5% in Italia, dove rimane comunque la possibilità di dichiarare i guadagni nel proprio 730 o 740.

    In generale però negli altri paesi mi pare ci sia più equilibrio tra tasse sul lavoro e rendite finanziarie. in Italia la disparità è così ampia proprio perché l’aliquota sostitutiva al 12,5% serviva soprattutto ad attirare compratori sui titoli di stato, dove c’è da anni un fabbisogno enorme da parte dello stato

  10. johnnyjohnny,

    se l’ultima crisi ci ha insegnato qualcosa è che tutti possono fallire, se qualcuno non ha l’intenzione di salvarlo. e che anche il salvatore potrebbe aver bisogno di essere salvato. E così via.

    Il rischio di un default italiano tipo Russia o Argentina negli anni scorsi non è ipotesi probabile, ma non da escludersi.

    Ma soprattutto bisogna pensare che il debito pubblico è una cosa che pesa ogni giorno, sulle nostre vite. Se ti fai queste domande:

    1) perché lo stato non costruisce da anni nuove strade in lombardia?

    2) perché lo stato non abbassa le tasse sui lavoratori e sulle imprese?

    3) perché dovrò pagare maggiori tasse in futuro? perché parte delle mie tasse finiscono all’estero per pagare gli interessi sui titoli detenuti da cittadini esteri?

    4) perché i progetti privati e nuove imprese non trovano fondi sul mercato per finanziare le loro iniziative?

    5) perché devo pagare una quota di tasse in più per coprire quelle non pagate dagli evasori fiscali?

    A tutte queste domande la risposta è: a causa del debito pubblico. non ci cade addosso tutto insieme, ma un po’ alla volta

  11. jonkind, alla domanda 5) mi sento di poter affermare che non dai la risposta giusta.

    Tu paghi anche per quello che non pagano gli evasori non per ragioni legate all’enorme ammontare di debito pubblico.

    Ma per ragioni di consenso elettorale. Perchè la categoria che trae comodo e vantaggio dall’evasione ha sempre avuto perfettamente presente dove risieda il proprio tornaconto privato.

    Le stesse ragioni che, rovesciate, non sono mai riuscite a costituire una determinante platea di elettori che premiasse chi combatteva l’evasione.

    Sebbene, tutto sommato, siano ben più numerosi coloro che avrebbero tutto da guadagnare da una politica di spietata lotta all’evasione.

    Sono di più, ma anche più bischeri.

  12. Grazie, Jonkind, per le precisazioni.

    Mi permetto, al riguardo, di continuare la discussione.

    1. su questo punto, ti ringrazio per le delucidazioni che specificano meglio le tue precedenti osservazioni. In effetti, alla luce dei suddetti chiarimenti, riconosco che un introito erariale, maggiore dell’attuale, potrebbe invero riscontrarsi. Qualche perplessità, tuttavia, mi rimane a proposito degli effetti retroattivi dell’incremento della tassazione che la tua ultima analisi lascia intendere. Si tratta, comunque, di (mie) perplessità che non hanno fondamento tecnico, nel senso che non mettono in dubbio l’aumento delle somme percepibili dall’Erario in relazione all’innalzamento dell’aliquota in esame, ma che si basano, invece, su una considerazione “politica”: se l’aumento della pressione fiscale colpisse anche investimenti pregressi, i sottoscrittori di quegli investimenti subirebbero una riduzione del proprio rendimento netto pur avendo legittimamente fatto affidamento su una remunerazione certa e maggiore al momento in cui hanno optato per l’acquisto di quegli strumenti finanziari che hanno in seguito subito il menzionato inasprimento impositivo. Ad ogni modo, qua entriamo nella sfera delle mere opinioni, del soggettivo che più soggettivo non si può e mi rendo, perciò, conto del fatto che il discorso sfumi troppo.

    2. Io credo, invece, che l’eliminazione del “problema della fiducia sulla valuta”, correlata al fatto che “il debito italiano è garantito dalla stabilità dell’euro” non sia di per sé sola sufficiente a scongiurare la fuga di capitali in periodi (futuri) di congiuntura nuovamente alta, non foss’altro perché quella garanzia di maggior stabilità è offerta in egual misura, perlomeno a livello europeo, a tutti i Paesi che hanno adottato la moneta unica: tra essi le differenze significative che permarrebbero, pertanto, sarebbero solo quelle afferenti i diversi rendimenti e la diversa tassazione. Ora, non è insensato immaginare che, in Paesi tra loro non troppo dissimili in termini economici, i rendimenti siano analoghi e particolarmente bassi, in quanto il prezzo dei titoli di debito è attualmente destinato ad essere alto, poiché molto alta è la richiesta. Pertanto, ciò che più di ogni altro aspetto divergerà, tra detti Paesi, sarà il rendimento netto, cioè le differenze impositive. Se è così (come appena prefigurato), la questione “fuga di capitali” resta immarcescibile.
    Sempre per rimanere su alcune tue riflessioni su questo punto, io penso che non si vada affatto “verso anni di moneta in eccesso” e “tassi bassi”: ciò mi pare, invece, sia soltanto il riflesso della violenta e non pronostica crisi. Si tratta, quindi, di una parentesi (non so dire quanto lunga, ma credo non molto, diciamo non più di tre anni dal suo inizio) a seguito della quale i tassi ricominceranno a salire vertiginosamente e i mercati assorbiranno come spugne tutta la liquidità possibile, considerato che la politica monetaria rimane il miglior strumento per combattere fenomeni inflattivi di taglio globale (a mio parere, vero cancro finanziario del futuro). A sostegno di quanto appena detto, basti notare come la “Cindia” (di più: il c.d. BRIC) non solo sia già fuori dalla crisi, ma addirittura non l’abbia in assoluto nemmeno sofferta troppo (se non altro, non troppo a lungo) e, continuando a crescere e produrre a ritmi assai elevati, inducono alla realizzazione di quei fenomeni inflazionistici di cui facevo cenno.

    3. Su questo punto c’è stato un equivoco, dovuto alla mia colpevole semplificazione: in particolare, quello che dici è, oltre che noto, semplicemente incontrovertibile sul piano tecnico, ma l’obiezione di fondo rimane intatta: la tassazione colpisce un reddito da capitale (ad esempio, gli interessi attivi di un BOT) e non il patrimonio generatore di quel reddito; tuttavia, è evidente che il menzionato patrimonio, nel corso della sua pregressa formazione, sia stato a sua volta oggetto di tassazione. Con questo, non voglio intendere che, a fronte di quella precedente imposizione, i redditi da capitale vadano esentati da qualsivoglia prelievo erariale; voglio, invece, solo dire che mi pare accettabile che l’ordinamento tributario preveda per quella tipologia di redditi, proprio per le ragioni anche da ultimo illustrate, una tassazione piuttosto bassa. Al proposito, vale la pena ricordare che una fetta di quei capitali già tassati è riconducibile al risparmio prodotto da famiglie e imprese che, su quei patrimoni e senz’altro non ancora sull’investimento degli stessi, hanno appunto scontato una massiccia tassazione in fase di accumulo. E ancora, più in generale: non è che tutti i capitali siano frutto di azzardate speculazioni di grandi gruppi bancari e assicurativi, ma, come detto, il loro accantonamento spesso deriva dal frutto del lavoro (autonomo, d’impresa o di lavoro dipendente che sia).

    4. A me parrebbe, invece, opportuno distinguere il capital gain da a) obbligazioni e similia da quello relativo a b) dividendi (utili distribuiti) o plusvalenze da cessione di azioni o di partecipazioni sociali: questa seconda tipologia di investimenti comporta, infatti, un grado di rischio mancante (del tutto o in gran parte) nel primo tipo. Tale propensione dovrebbe essere premiata con una minore tassazione, non foss’altro perché, qualora ad esempio uno giochi in borsa e perda sul capitale investito, non è che lo Stato gli consenta di portare in deduzione l’entità della perdita; viceversa, se lo stesso soggetto vince, lo stesso Stato la sua parte la vuole eccome.

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