Elaborazione del lutto craxiano: la Fase Due

L’elaborazione del lutto craxiano, almeno quella, è entrata nella Fase Due. Più che un’elaborazione pare invero rimozione, salto olimpionico da un penoso funerale in esilio direttamente agli omaggi partecipati di ieri e ieri l’altro, uno per orfano.

Uno per orfano, uno per parte e al tempo stesso un pizzico bipartisan.
Il bicchiere è mezzo pieno, e nello scantinato finisce la Fase Uno, quella dei passionali e dei risentiti, gente col libro delle vendette in mano, noiosi enumeratori di voltagabbana e forcaioli, biografi di Edmond Dantès e un po’ meno di Benedetto Craxi, uomo di stato italiano, 1934-2000.

La cerimonia formale di martedì alla Camera, ossia la presentazione del volume con tutti i discorsi parlamentari del leader che fu, resta la più solenne fatta dopo la sua morte, ma a fare impressione non era tanto che ci fossero un presidente della Camera e un presidente emerito della Repubblica, ma che ci fossero Bertinotti e Ciampi.
Non faceva impressione che ci fosse il presidente della Fondazione della Camera, ma che ci fosse Casini.
Va da sè che quest’ultimo abbia sentito l’urgenza di definire Craxi “un leader controverso che commise errori e tuttavia fu indubbiamente uno statista”, mentre le inchieste diventavano “gli anni che tutti ricordiamo” e la latitanza “gli anni della Tunisia”.
Galateo o rimozione fa lo stesso: va bene così. Casini almeno si è divertito a dare all’ex governatore di Bankitalia, a Ciampi, di “collaboratore di Craxi”, e così pure a sottolineare maliziosamente quanto il volume dei discorsi sia stato voluto da Giorgio Napolitano.

Fase Due del resto non significa il rivedere le faccie impunite dei Carlo Ripa di Meana e Roberto Villetti e Mauro del Bue, personaggi che meriterebbero l’inferno se non fosse che l’inferno della politica è notoriamente vuoto. Fase Due significa per esempio che alla cerimonia c’erano anche Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa, solenni anche loro, perfetti, riparati sotto il formidabile distinguo che quei discorsi strettamente parlamentari rappresentano di per loro.
Solo il Presidente della Camera non ce l’ha fatta a non tramutarsi in Bertinotti: non ha detto una parola e ha rinunciato persino al saluto formale, ma all’uscita non ci ha dispensato dal farci sapere che “questo convegno è un atto di rispetto che non implica condivisione delle tesi”, del resto lui medesimo ha “opinioni molto distanti dai relatori Acquaviva e Casini”. Bertinotti forse poteva inventarsi un altro impegno istituzionale, ma va bene anche questo.

Stefania Craxi era raggiante. Una frase pronunciata da Gennaro Acquaviva l’ha entusiasmata in particolare: “Se dovete compiere un’ingiustizia, fatelo per regnare, altrimenti usate la pietà”. E’ di Euripide, e il sottinteso è che i Ds non abbiano fatto una cosa nè l’altra. “Non c’era un solo loro rappresentante”, osserva. Ingrata: c’era Giuseppe Caldarola, che per quanto attraversi un momentaccio è andato anche alla commemorazione organizzata da Bobo Craxi a Palazzo San Macuto: e anche lì c’erano Capezzone, Castagnetti e addirittura un ministro di prima fila come Giulio Santagata. C’era anche Gabriele Albonetti, e non dica che essendo questore della Camera doveva presenziare per forza. C’era Valdo Spini, perdiana. “Volevano rinchiudermi nel girone dei figli rancorosi in lacrime, ma non ci sono riusciti” dice ancora Stefania. La Fase Due avanza. Ad Hammamet, a inaugurare la via dedicata a Craxi, forse ci saranno anche i segretari di Cisl e Uil.

Per vedere la Fase Tre, invece, non camperemo a sufficienza. A impersonarla non sarà un Antonio Di Pietro che faccia harakiri a Largo Febo, davanti al Raphael, ciò che potrebbe accadere anche questo pomeriggio se il prezzo politico fosse buono.
La Fase Tre prenderà il largo quando i postcomunisti tralasceranno certe vacue citazioni congressuali e prenderanno atto degli errori politici che a suo tempo li proiettarono nell’oggi.

Per esempio: Berlinguer aveva torto e Craxi aveva ragione, una frase semplice, ma già sufficiente ad attorcigliare le corde vocali.

Oppure: l’autonomismo craxiano era giusto, soprattutto se il suo distaccarsi da un certo frontismo socialista fosse lo specchio rovesciato di ciò che non riesce, oggi, ai diessini e un intero governo.

Poi, d’accordo, lo stramaledetto riformismo: ma bastano due frasi lette in questi giorni. Una è di Gianfranco Pasquino su l’Unità di lunedì: “Riformismo è decidere”. Ossia: Craxi abolì la Scala mobile senza fasi né uno né Due, e di passaggio affermò un’Italia occidentale e autonoma nello stesso tempo. Oltre a Sigonella, invero, ci furono i missili a Comiso. L’altra frase, poi, è di Oscar Giannino sul Messaggero di martedì: “I tanti che rimproverano ai Nicola Rossi di mordere troppo il freno e di volere l’impossibile, sono gli stessi che imputavano a Craxi un decisionismo pericoloso, in stivali e orbace”. Nulla da aggiungere.
A ornamento, forse, può starci una terza frase pronunciata del segretario di Rifondazione Franco Giordano l’8 gennaio scorso: “La ricetta riformista è vecchia”. Punto.
E’ la Fase Zero.

Aggrappati luttuosamente alla Fase Uno, invece, restano pochi e derelitti craxisti che nella vita si occupano d’altro e hanno metri di misura tutti loro. Loro ripensano al 1993, quando missini e occhettiani tirarono sassi e monetine fuori dal Raphael. Ripensano al 1994, quando i pidiessini chiesero l’allontanamento di Craxi dall’Internazionale Socialista dopo che Craxi ci aveva fatto entrare loro. E in questi giorni, di fronte alle commemorazioni bipartisan, probabilmente ripensano che se all’ultimo Craxi dicevi “arco costituzionale” lui ti tirava l’unica scarpa che portava. Sono ancora ancorati a quell’ultima patetica frase dall’esilio: tutto vorrei, disse, tranne essere riabilitato da quelli che mi hanno ucciso.
Un bel problema, visto che Bettino Craxi l’ha ucciso un popolo intero.
E che la Camera lo rappresenta oggi come allora, fine.

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Seguono stralci del discorso di
Gennaro Acquaviva alla presentazione
del volume contenente i discorsi parla-
mentari di Bettino Craxi, tenutasi mar-
tedì scorso alla Camera dei deputati.

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La politica di unità nazionale, come è no-
to, non sopravvisse molto alla drammatica vi-
cenda del sequestro e dell’assassinio di Aldo
Moro. Di essa Craxi alla Camera parlò sol-
tanto nel brevissimo dibattito sulla fiducia al
IV governo Andreotti, in quella drammatica
giornata che fu il 16 marzo 1978. “Tentate
l’impossibile per liberare Aldo Moro”, disse;
e da parte sua tentò effettivamente l’impos-
sibile. In quei tentativi, peraltro, non c’era né
ingenuità umanitaria, né opportunismo tatti-
co. C’era la lucidità politica di chi prevedeva
la crisi di un sistema incapace di proteggere
la vita del suo massimo dirigente; e c’era an-
che la consapevolezza della fragilità dell’in-
tesa fra Dc e Pci, che pure in quei giorni era
apparsa granitica, e che invece durò soltan-
to pochi mesi, portando alla crisi della legi-
slatura a soli tre anni dal suo insediamento.
E’ in questo scenario che Craxi matura la
svolta della “governabilità”. Secondo Gian-
franco Pasquino, data l’indisponibilità del
Pci ad uscire dall’arroccamento, il leader del
Psi è costretto a “giocare da solo le sue car-
te”; così come è costretto dalla crisi del si-
stema politico, e non solo dalla sua indole, a
rovesciare la posizione fino ad allora segui-
ta “un po’ impoliticamente” da Nenni, che
“aveva sempre anteposto le preoccupazioni
per il funzionamento e l’evoluzione del si-
stema politico a quelle relative ai vantaggi
del partito, ed era stato sempre (o almeno
prevalentemente) mosso da considerazioni
di carattere sistemico rispetto ad interessi
partigiani”. […]
Ma è il 31 agosto 1982, nel dibattito sulla fi-
ducia al II governo Spadolini (il “governo fo-
tocopia”), che Craxi indica con maggiore
chiarezza la prospettiva per evitare la crisi
di sistema: critica l’arroccamento del Pci, e
rileva che “tocca ora ai comunisti, anche se
ca ora ai comunisti, anche se
più forti e più organizzati, di muoversi nella direzione seguita dai socialisti”. E’ questa la condizione per sbloccare il sistema politico,
che se vuole sopravvivere non può imbocca-
re “vie diverse da quelle di un vero e nuovo
centro-sinistra o di una vera alternativa”;
cioè, spiega, da un lato quella “della ricerca
di una nuova linea d’incontro tra le istanze
del centro politico e le istanze della sini-
stra”, e dall’altro quella di “una vasta aggre-
gazione di forze democratiche su presuppo-
sti non equivoci, in alternativa al partito di
maggioranza relativa, cardine per decenni,
nel bene o nel male, di tutte le maggioranze
politiche”.
Il sistema politico italiano non imboccò,
come è noto, né una strada, né l’altra. Investì,
invece, sulla risorsa “governabilità” di cu
Craxi si era fatto simbolo e, in qualche modo,
si può dire che ne sollecitò il protagonismo,
non volendo fare i conti con le alternative
meno traumatiche che lui stesso aveva luci-
damente indicato. Sul governo Craxi, che ne
fu lo sbocco naturale, si sono addensate nel
corso degli ultimi quindici anni cupe inter-
pretazioni che hanno cercato di demonizzare
tutto quello che fece, il buono e il cattivo, con
una logica che è difficile interpretare se non
come una persecuzione bella e buona. Oggi si
comincia a collocare nella giusta luce, che è
quella storico-critica, il lungo e positivo cam-
mino che si realizzò tra il 1983 ed il 1987. […]
Governare non è asfaltare, e Craxi lo sape-
va bene, anche se non sottovalutava l’impor-
tanza dell’amministrazione. Per cui il gover-
no Craxi deve essere ricordato soprattutto
per le scelte politiche di grande portata che
ancora oggi condizionano positivamente la
nostra vita civile e sociale: l’avvio, nel Consi-
glio europeo di Milano del 1985, del processo
che avrebbe portato all’Atto unico europeo; il
sostegno, che fu decisivo, alla posizione atlan-
tica mossa dal cancelliere Schmidt nella po-
litica di difesa europea, una decisione che
avrebbe accelerato l’implosione dell’impero
sovietico; la revisione del Concordato, che De
Gasperi e Togliatti si erano impegnati a con-
cludere nel lontano 1947; la drastica riduzio-
ne dell’inflazione, grazie al decreto sulla sca-
la mobile che, secondo quanto riconosce ora
Massimo D’Alema, liberò “il campo da auto-
matismi superati per lo stesso esercizio della
lotta contrattuale da parte del sindacato”. Ed
anche, last but not least, la difesa inflessibile
del prestigio e della sovranità della nazione.
Senza retorica e senza avventurismi, ma sem-
pre in base a solide ragioni: le solide ragioni
della crescita economica, che giustificarono
la pretesa di Craxi di partecipare ai vertici
dei paesi più sviluppati; le solide ragioni del-
la politica e del diritto internazionale che gli
consentirono di mettere in salvo passeggeri
ed equipaggio della Achille Lauro, ma anche
di salvaguardare i rapporti di amicizia fra oc-
cidente ed Egitto che gli avventati consiglieri
del presidente Reagan non avevano esitato a
mettere a rischio.
Alla vigilia di quella esperienza di gover-
no non avevamo preparato un dettagliato
programma, come era invece avvenuto alla
vigilia del primo centro-sinistra. Il Psi aveva
bensì indicato, nella conferenza di Rimini
del 1982, le linee guida della propria azione
politica, orientata ad assecondare la moder-
nizzazione della società italiana ed a “gover-
nare il cambiamento”, valorizzando i meriti
senza lasciare disattesi i bisogni dei più de-
boli. Ma Craxi non si era fatto precedere a
Palazzo Chigi da un qualche “libro dei so-
gni”. Trovò, piuttosto, un “libro degli incubi”,
come ha osservato nel suo “Menscevichi”
Luigi Covatta: i fantasmi di tutte le decisioni
rinviate, di tutte le scelte eluse, di tutti i pro-
blemi lasciati marcire dalla pratica del “go-
verno ai margini” che, secondo Pietro Scop-
pola, aveva rappresentato la cifra del modo
di governare della Dc dopo la morte di De
Gasperi, fatta salva la parentesi di Fanfani.
E la novità rappresentata da Craxi fu quindi
soprattutto quella del fare, del non rasse-
gnarsi al rinvio, di offrire al paese la figura
di un governo che fosse una guida, e non una
camera di compensazione: rappresentato au-
torevolmente da un leader che credeva nel-
la politica come espressione del diritto dei
cittadini ad avere un governo, e che agiva
coerentemente con queste convinzioni.

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