Ivan Il Terribile (e le solite fidanzate di Roth)

demjan_jukTorna alla ribalta la controversa vicenda di Ivan Demjanjuk, il cittadino americano 89enne di origine ucraina – alias Ivan il Terribile -, che viene oggi processato a Berlino per il suo ruolo di aguzzino nel campo di concentramento polacco di Sobibor durante lo sterminio nazista degli ebrei. L’accusa, caso unico in questi processi sui crimini della seconda guerra mondiale, non prevede l’imputazione diretta ne per strage ne per omicidio singolo, ma la partecipazione (Ivan era un prigioniero di guerra sovietico, una specie di ausiliario nel funzionamento del campo) al meccanismo dello sterminio. La sua presenza nel campo è confermata da molti superstiti e la sua sadica collaborazione con gli sgherri nazi all’uccisione di 27.900 ebrei considerata molto probabile, anche se non dimostrata.

In realtà il caso Demjanjuk è una specie di incarnazione simbolica dell’Olocausto, delle sue nefandezze e delle sue terrificanti ambiguità. Prima di essere il “boia di Sobibor”, Demjanjuk è stato per anni indicato come il “boia di Treblinka”. Perseguitato dalla sua triste fama di carceriere spietato, Demjanjuk venne pizzicato a Cleveland dove si era trasferito nel ’51 con la famiglia e dove lavorava in uno stabilimento Ford. Venne estradato in Israele dove subì un clamoroso processo pubblico nel 1981. Un processo simile a quello subito da Adolf Eichmann vent’anni prima. Lo strazio delle testimonianze riportò l’opinione pubblica all’orrore del campo di Treblinka, dove morirono centinaia di migliaia di ebrei compresi quasi tutti gli abitanti del ghetto di Varsavia. Secondo i testimoni Ivan era lì, a Treblinka, ed era peggio del demonio. C’era tutto per far fare a Ivan la fine di Eichmann: la forca. Eppure saltarono fuori delle contraddizioni, furono acquisite prove e testimonianze che quell’Ivan a Treblinka forse era un certo Marcenko, non Demjanjuk. La Corte Suprema Israeliana annullò la condanna e il nostro tornò in America da uomo libero.

Oggi Ivan è ancora sul banco degli imputati come boia. Non di Treblinka. Ma di Sobibor. E’ davvero lui questa volta? Come facevano i testimoni di Treblinka ad avere sbagliato persona? Erano false le testimonianze (provenienti dall’Armata Rossa) che lo scagionarono? Era veramente lui un aguzzino? O è solo uno scambio di persona nella mente afflitta di chi subì le violenze del vero boia? Perché si accusa questo ucraino mentre le altre guardie SS di Sobibor non sono state perseguite per gli stessi crimini?

Quello che questa vicenda assume in sé, in realtà, è la tragedia nelle sue dimensioni sovrumane, il peso di una responsabilità collettiva che fatica a scaricarsi su un uomo solo, seppur quasi sicuramente colpevole di qualcosa. E’ il caos che ritorna in un’ondata di ricordi confusi e di soglia di dolore insormontabile. Treblinka, Sobibor. Radure anonime nella campagna polacca, tutte uguali in fondo a binari morti. Il caos dei convogli, le facce dei carcerieri-schiavi con la stessa pelata dei prigionieri. Carte di identità che si confondono, file interminabili di persone a righe, abbruttite, uguali, urla, pianti, terrore. Ivan! Ivan! un grido dell’orrore alla vista dell’orco ucraino (ma tutti i sovietici venivano chiamati Ivan, come nomignolo, durante la guerra). Pare quasi che oggi si voglia condannare Demjanjuk per il solo terrore di non lasciare libero un colpevole, sapendo che migliaia, milioni, di colpevoli non sono mai stati inseguiti, lasciati liberi di morire nel loro letto. Si vuole salvare la memoria dello sterminio pur preservando l’ammirevole atteggiamento liberale della giustizia israeliana, che lo mandò assolto pur tra mille dubbi, con l’autorevolezza di una democrazia giovane ma di solidi attributi.

Il caso Demjanjuk fu il gemello del caso Eichmann. Anche nel sollevare una valanga di dubbi sull’atteggiamento morale dei vincitori, degli sconfitti, e in generale per ciò che deve essere lo sguardo da rivolgere alla malvagità umana nella tempesta. Come per il caso Eichmann la testimonianza letteraria fu rappresentato dall’uscita de La Banalità del Male di Hannah Arendt, così sul caso Demjanjuk non si può non ricordare (e leggere) Operazione Shylock di Philiph Roth, ambientato a Gerusalemme durante il processo, lontano dalla forma-saggio della filosofa tedesca ma genialmente centrato sul tema del doppio – l’autore, in prima persona, scopre che c’è un sosia che si aggira per la città e si fa chiamare come lui -e come al solito punteggiato dai temi rothiani delle relazioni sentimentali disperatamente onnivore e dal sesso disperatamente carnivoro, tanto che a un certo punto spunta anche un pisello di plastica, ridicolo e mostruoso al tempo.

Operazione Shylock da cui traggo questo profilo di Ivan “il terribile” Demjanjuk come appariva ai tempi del processo di Gerusalemme, quando era ancora il boia di Treblinka e non di Sobibor, a pag. 41:

“Secondo le testimonianze di sei anziani superstiti di Treblinka, dal luglio 1942 al settembre 1943, durante i quindici mesi in cui a Treblinka furono assassinati quasi un milione di ebrei, la camera a gas era fatta funzionare da una guardia, nota agli ebrei come Ivan il Terribile, il cui secondo lavoro consisteva nel torutrare e mutilare, preferibilmente con una spada, i corpi nudi degli uomini, delle donne e dei bambini raggruppati davanti alla camera a gas in attesa di essere asfissiati. Ivan era un soldato sovietico forte, vigoroso e quasi analfabeta, un ucraino tra i venti e i venticinque anni che i tedeschi avevano catturato sul fronte orientale e, insieme a centiania di altri prigionieri di guerra ucraini, reclutato e addestrato per assegnarlo ai campi di sterminio polacchi di Belsec, Sobibor e Treblinka. Gli avvocati di John Demjanjuk, uno dei quali, Yoram Sheftel, era israeliano, non hanno mai contestato l’esistenza di Ivan il Terribile o l’orrore delle atrocità da lui commesse. Essi si sono limitati a sostenere che Demjanjuk e Ivan il Terribile erano due persone diverse e che tutte le testimonianze che lo negavano non avevano alcun valore. Essi hanno asserito che le foto segnaletiche mostrate ai superstiti di Treblinka dalla polizia israeliana erano assolutamente inaffidabili per il dilettantismo e la scorrettezza delle procedure usate, procedure che avevano raggirato i superstiti inducendoli a identificare erroneamente Demjanjuk come Ivan. Essi hanno sostenuto che l’unica prova documentale, una carta di identità di Trawniki, campo di addestramento delle SS per le guardie di Treblinka (una carta che recava il nome, i connotati e una fotografia di Demjanjuk), era un falso del KGB destinato a screditare i nazionalisti ucraini indicando in uno di loro questo feroce criminale di guerra. Essi hanno sostenuto che nel periodo in cui Ivan il Terribile aveva fatto funzionare la camera a gas di Treblinka, Demjanjuk era stato trattenuto come prigioniera di guerra teesco in una regione piuttosto lontana dai campi della morte polacchi. Il Demjanjuk della difesa era un padre di famiglia osservante e laborioso venuto in America con la giovane moglie ucraina e un figlioletto da un campo profughi europeo nel 1952: padre di tre ragazzi americani, metalmeccanico specializzato alla Ford, cittadino americano onesto e rispettoso della legge, rinomato tra gli ucraino-americani del suo sobborgo di Cleveland per lo splendido orticello e il pierogi che aiutava le signore a cucinare per le feste nella chiesa ortodossa di San Vladimiro. Il suo unico delitto era quello di essere nato in Ucraina e di essere stato battezzato col nome di Ivan, nonché di avere più o meno la stessa età e forse anche di somigliare un po’ all’Ivan ucraino che quei vecchi superstiti di Treblinka non vedevano, naturalmente, in carne e ossa da più di quarant’anni. Nelle prime fasi del processo, lo stesso Demjanjuk così aveva perorato la sua causa: – Io non sono quell’uomo orribile al quale fate riferimento. Io sono innocente.”

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3 Commenti

  1. Chissà perché nessuno si ricorda delle accuse a Demjanjuk durante il processo sulla Risiera di San Sabba negli anni ’70.

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