Ci sono libri che costringono a occuparsi dei movimenti tellurici che impongono. Ci sono addirittura cicli narrativi che sortiscono questo effetto, che è necessario esteticamente da un lato e obbligatoriamente civile dall’altro. E’ il caso de La visione del cieco di Girolamo De Michele. Emerso dalla dura selezione della Repubblica dei Lettori rappresentata da i Quindici, De Michele esordì presso Einaudi con Tre uomini paradossali, clamorosa devastazione della gabbia noir/poliziesca con tanto di deviazione verso il romanzo storico/mitologico: una torsione che è stata codificata dal memorandum sul New Italian Epic firmato da Wu Ming 1. Si tratta di una narrazione che fa scattare la problematica cortircuitazione tra ’77 e anni Novanta, anticipando una tendenza via via sempre più evidente nel romanzo italiano di questi anni. E, a sorpresa, si tratta della prima stazione di una trilogia, della messa in scena di un teatro umano che, via via, diviene memorabile più che paradossale. Si passa per la conferma di Scirocco (sempre Einaudi, 2005), che mostra più evidente e pulsante una vena manzoniana, reinterpretata attraverso un principio di “evasione” dal passato e dai suoi vincoli col presente. Il teatro umano si allarga e si contrae, secondo sistole e diastole che hanno una loro secca, lancinante conclusione nella fine della saga, La visione del cieco (Einaudi, quest’anno), probabilmente l’oggetto narrativo più complesso della trilogia dispiegata da De Michele, seppure possa apparire come il più scattante e semplice tra i tre romanzi. L’intervista che De Michele ha rilasciato a un altro bravissimo collega, Saverio Fattori, spiega i motivi della succitata complessità. Quanto alla trama, ci si può contentare di una visione semicieca, attraverso le linee guida della quarta di copertina.
Qui l’intervista.
La visione del cieco – Intervista a Girolamo De Michele
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