Interrogatorio Moro /8: Gli ambasciatori americani a Roma

(COMM STRAGI, II 168-169; NUMERAZIONE TEMATICA 8)

Il memoriale Aldo MoroHo visto pochissimo l’Amb. Martin che era molto riservato, di poche parole ed alieno dall’esprimersi sulle cose italiane. Non potrei dire in coscienza quale ruolo abbia esplicato nella vita interna del nostro Paese. L’Amb. Volpe, italo-americano, cordiale, espansivo, eseguiva rigorosamente le direttive del Dipartimento di Stato con accentuato e rude atteggiamento anticomunista. Credo che, su istruzione del Dipartimento, avesse preso l’abitudine d’invitare più giovani deputati che anziani già sperimentati, probabilmente con ciò ritenendo di favorire quel rinnovamento della D.C. nel quale vedeva un modo di stabilizzazione del Paese. In privato ed in pubblico il discorso era francamente anticomunista, qualche volta su istruzioni, qualche volta senza.
L’Amb. Gardner è uomo fine, colto che esegue il suo mandato, in genere, con garbo ed efficacia. Sulla vicenda relativa ai nuovi rapporti di Governo è stato sobrio, ha più ascoltato che parlato, avendo cura di rifarsi alla nota dichiarazione base del Dipartimento con tutte le sue articolazioni: non interferenza, non indifferenza, imprevedibilità delle conseguenze.
A mio giudizio quest’ultimo diplomatico è il più delicato e sensibile, ha il polso delle cose italiane ed è in condizione di svolgere con efficacia un ruolo effettivo nelle cose italiane.


(COMM. MORO, 147; COMM STRAGI, II 289-293; NUMERAZIONE TEMATICA 8)

Dei tre Ambasciatori citati, quello con il quale ho avuto rapporti semplicemente minimi è il primo, l’Amb. Martin, che ho incontrato, credo, una volta sola, benché fossi allora Ministro degli Esteri. Estremamente riservato, mite almeno all’apparenza, non ha mai affrontato alcun argomento di politica interna italiana, forse ritenendo, magari a ragione, che vi fosse per questo più qualificato interlocutore. La sua sostituzione fu considerata una liberazione, non per la persona ovviamente, ma [per] l’assoluta mancanza di comunicativa. Questo almeno per quanto riguarda gli ambienti politici. Volpe venne a Roma con un solido prestigio acquistato in patria come amico personale di Nixon, operatore economico di rilievo, buon amministratore ed appassionato italo americano. Parla ancora, sia pure stentatamente, la lingua italiana ed ama visitare, con fare amichevole e popolaresco, le varie regioni italiane. Insomma l’opposto dell’altro. Ciò malgrado egli non dispiegò, almeno nei miei confronti, una spiccata attività politica. Ed io anzi ne fui un po’ sorpreso, tenendo conto che il mio primo incontro con lui era stato nel corso della mia visita ufficiale negli Usa, quando egli era governatore del Massachusetts. Allora, mi aveva invitato a colazione a casa sua con spirito amichevole. A Roma trattai prevalentemente questioni di ufficio (un caso spiacevole di una multinazionale americana a Palermo che aveva fatto fallire la filiale e pretendeva un risarcimento: il che io respinsi a muso duro). Per il resto non si andò al di là delle generali, non essendovi problemi politici in corso né bilaterali né multilaterali. Mi pare che Donat Cattin affrontò, da quel cane mastino che è, il problema del finanziamento parziale delle centrali nucleari in Italia, ma con scarsissimo o nullo successo. Io fui a colazione da Volpe una sola volta in compagnia del Segretario Generale Amb. Gaja per una breve, generica ed inconcludente conversazione. Seppi poi, ed il fenomeno divenne sempre più vistoso, che non mancarono all’ambasciata occasioni d’incontro politico-mondano, al quale peraltro, senza alcun mio dispiacere, non venivo invitato. Si trattava di questo, per quel che ho capito, di una direttiva cioè del Segretario di Stato Kissinger, il quale per realismo continuava a puntare sulla D.C., ma su di una nuova, giovane, tecnologicamente attrezzata e non più su quella tradizionale e non sofisticata alla quale io appartenevo. Cominciarono a frequentare sistematicamente l’ambasciata giovani parlamentari (io so, ad esempio, di Borruso e Segni; ma immagino che il De Carolis, Rossi ed altri fossero volentieri accettati), insomma si ebbe qui, non per iniziativa dell’Ambasciatore, ma dello stesso Dipartimento di Stato, un mutamento di rapporti, che prefigurava un’Italia tecnocratica che tra l’altro parla l’inglese, più omogenea ad un mondo più sofisticato e, per così dire, più internazionale che si era andato profilando.
Con l’Amb. Gardner ho avuto, come ho detto, pochi rapporti e tutti incentrati sulla situazione, spiegata con la maggior obiettività. Gardner è stato molto corretto, mi ha sempre letto ed illustrato la posizione americana della non interferenza e non indifferenza, ha detto di non poter precisare in che cosa la non indifferenza, nelle varie circostanze, si sarebbe potuta esprimere.
Ho detto che ha preso atto dei miei discorsi, senza commentarli più che tanto. Anzi non l’ho rivisto da molto tempo innanzi la soluzione della crisi. Credo che, essendo giovane, dinamico, colto, raffinato, ami molto il giro dei rapporti, veda molta gente, faccia propaganda all’America ed alla linea politica generale del Presidente Carter. Se potessi permettermi un giudizio, direi che è un personaggio sdrammatizzante e non ha mai alzato il tono del suo dire anche nelle questioni di politica italiana. Mi pare, insomma, più preoccupato del tema politico generale, entro il quale quello italiano deve apparirgli un dettaglio. Questo fino ad oggi; bisognerà vedere cosa farà dopo. Ha moglie italiana ed ama l’Italia.

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