Requiem per il capitalismo

Lo dico con il massimo rispetto di chi vi ha creduto, e sulla base di considerazioni economiche, non politiche: probabilmente è venuto il momento di ammettere che il capitalismo (non quello moderno, il capitalismo in generale) è arrivato alla frutta. Anzi, più in là: alla tazzina di espresso. In 45 paesi, infatti, 25 milioni di contadini e rispettive famiglie stanno assistendo impotenti al crollo del prezzo del caffè, causato da un’offerta dell’8% superiore alla domanda. E la domanda, in questo caso, viene dai quattro giganti che si spartiscono il mercato: Sara Lee, Procter & Gamble, Kraft e Nestlé. È solo un esempio. Avrei potuto citare i palloni di cuoio cuciti a mano dai bambini, le sorprese delle merendine dipinte a mano nel terzo mondo, l’industria delle armi e le mine a forma di giocattolo, argomentazioni considerate troppo di sinistra per toccare alcuni cuori. Esistono coscienze che si smuovono soltanto quando ad essere minacciato è il proprio portafogli. E va bene, per carità, sono stili di vita. Se dico che il capitalismo è morto, è perché sta iniziando a trascurare anche gli interessi di chi i soldi li ha. E li investe in quel tavolo verde mangia-fiches che è diventata la borsa, lasciandosi rapinare dalle bolle speculative, dalle indiscrezioni fasulle, dalle inchieste sui falsi bilanci, dalle impulsive manovre dei topi della new economy che abbandonano la nave che imbarca acqua. O li deposita in banche che hanno uffici dedicati alle speculazioni su quelle stesse monete. Oppure tenta di assicurarsi la salute per il futuro comprando fondi che, poi, supportano gli OGM. E nel frattempo quel cazzo di pomodoro, che hai finanziato e stai mangiando, ti sta ammazzando.

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