1992 (momenti interminabili che nessuno mi ridarà mai indietro)

1992

Non so davvero dire in quanti diversi modi “1992”, la nuova serie prodotta e trasmessa da Sky su un’idea di Stefano Accorsi, sia brutta e sbagliata.

Lo dico provando anche fisicamente del dolore – voglio sottolinearlo – perché le aspettative personali erano altissime, perché provo una certa simpatia per Sky, e per gli innegabili meriti del passato. Ma, a maggior ragione, non si capisce per quale motivo, dopo tre serie confezionate magistralmente (parlo di “Romanzo Criminale” 1 e 2 e “Gomorra”) Sky abbia deciso di imbarcarsi – la prendo larga – in questa orribile, inguardabile puttanata.

Dicevo: brutta e sbagliata in così tanti modi che potrei andare avanti a elencarli, e sarebbe già pronto il sequel, “1994”. Per questo motivo ne butto lì qualcuno a caso, come mi viene. Ma giusto per rendere l’idea che di questo maiale non si riesce a salvare niente, da qualsiasi parte lo si guardi.

Procediamo, quindi, e iniziamo dai can… dagli attori. Perché esiste un livello di canitudine che fino a ieri era ad appannaggio esclusivo di Rai 1 e Canale 5 ma che, a quanto pare, Sky non disdegna, pur essendosene tenuta alla larga fino a questa nefasta serata.

Entro più nello specifico: si salvano Giuseppe Cederna (che apparirà in totale credo 3 secondi netti), Bebo Storti (che si fa perdonare i post vagamente sciachimisti e scritti in caps-lock su Facebook), Teco Celio, che già era stato perfetto in “Non pensarci”, e qui interpreta un credibile dirigente leghista della prima ora, e la figlia di Accorsi.

Per il resto: Miriam Leone, vieni qui, piccola, siediti. Ci hai almeno provato, e questo ti fa onore. Ma devi sapere che c’è anche tanto onore nell’ammettere di non esserci riusciti, e tornare a fare altro. Il più lontano possibile dalla macchina da presa. Che è poi la medesima cosa che dovrei augurare ad Accorsi, se solo fosse finalmente universalmente assodato che il punto più alto della sua carriera sia stato “Du’ gust is megl che uan”, e da lì in poi l’inesorabile discesa.

Una menzione a parte per Tea Falco, che interpreta Bibi Mainaghi, la tossicissima rampolla di un industriale corrotto: dopo aver assistito a una delle scene in cui appare fintamente strafatta proverete un’insana voglia di scuoiarvi con le vostre stesse mani, mettere la pelle a essiccare al sole e lanciarvi nell’acqua salata. E a un certo punto non vi sembrerà abbastanza.

A proposito dei personaggi, sapete quando si può dire senza alcun timore di andare sopra le righe che una serie è una vera merda? Quando i cognomi dei protagonisti sembrano presi da un libro di Andrea De Carlo. E qui i cognomi sono Venturi, Mainaghi, Notte, Bosco, Pastore, Castello. Vostro Onore, non ho altro da dire su questo argomento.

Veniamo alla trama: il gioco è quello di incrociare una realtà recente di cui tutti ricordiamo i dettagli, con una storia invece completamente inventata. E non è che sia un male di persé, anzi. Diventa male quando la storia originale che deve intrecciarsi con la storia che va a finire sui libri di scuola ha la qualità di una cosa che si arrabatta tra “Gli occhi del cuore” e i prodotti recitati dalla premiata ditta Garko & Arcuri.

Voi direte, vabbé, è la storia di Mani Pulite, chi sarà mai il protagonista? Uno del team di Mani Pulite? Di Pietro? Borrelli? No, il protagonista è nientemeno che Luca Pastore. Luca Pastore – voi non lo sapete – è la vera mente di Mani Pulite. E’ a lui che dobbiamo la scomparsa della DC, l’affondamento del PSI, l’esilio di Bettino Craxi. Ma a questo punto vi chiederete anche: è chi stracazzo è questo Luca Pastore?

Se riuscite a prendervi due secondi in modo che il vostro senso di sospensione dell’incredulità possa farsi una lunga striscia di coca, ve lo spiego.

Luca Pastore è un giovane e inesperto poliziotto. E’ malato di AIDS a causa di una trasfusione di sangue infetto e, per arrivare a vendicarsi del colpevole (un misto tra un De Lorenzo e un imprenditore senza scrupoli), riesce nell’ordine a a) farsi assumere in procura; b) non solo in procura, ma proprio all’interno del pool di Mani Pulite; c) incastrare un imprenditore corrotto piombandogli da solo in casa, di notte, armato; d) scoparsi la figlia del finto De Lorenzo per passare la notte nella casa di famiglia e procurarsi le prove; e) convincere Di Pietro a non processare per direttissima Mario Chiesa e far sì che se la cavi con una sentenza moderatamente pesante ma, piuttosto, puntare in alto fino a arrivare al finto De Lorenzo e, magari, a Craxi; f) ottenere tutto questo facendo in modo che Di Pietro pensi che è stata un’idea sua.

Continuo, anche se a questo punto è – me ne rendo conto – sparare sulla Croce Rossa. Con un bazooka. Armato di una testata nucleare. Difettosa. Però un’altra scena sono costretto a citarla. E’ quella in cui Accorsi (che in 1992  interpreta un consulente Publitalia) va a pisciare e scorge nel bagno accanto un paio di scarpe che scopriremo appartenere a Nicola Savino che imita Berlusconi in un giorno in cui ha la raucedine. Lo so: non rende, a descriverla. Dovreste vederla. Il giorno in cui lo farete potrete anche voi vantare un’espressione facciale permanente equivalente ad avere il Marchio della Bestia inciso sulla fronte, e quell’espressione esprimerà chiaramente il seguente concetto: “ma-che-cazzo?”.

E’ tutto un disastro, a parte l’idea del revival sul 1992, quella sì, geniale e in grado da sola di decretare l’immeritato successo della serie dovuto al fatto che tutti c’eravamo, tutti ricordiamo, tutti vogliamo commentare un pezzo di storia di cui siamo stati indiretti protagonisti.

E’ come essere sul bordo dell’autostrada e assistere a un incidente a catena che diventa sempre più catastrofico: dialoghi poco plausibili (i ricchi industriali puttanieri che vogliono scoparsi le starlette non trascorrono il post-coito a spiegare alle sventurate le correnti ascensionali); il Palazzo della Regione Lombardia (A.D. 2010) e il Bosco Verticale (A.D. 2014) che appaiono nelle riprese di Milano dall’alto; il personaggio del giovane leghista arriva al Terminal 1 di Malpensa (A.D. 1998); Accorsi che sorprende la figlia a ballare “Rosso” di Francesca Gollini a “Non è la Rai” e – come fa notare l’infallibile StazzittaFrancesca Gollini arriva a “Non è la Rai” solo nel 1993; in una ricevuta che è stata mostrata appare il codice IBAN, introdotto nel 2000 e obbligatorio dal 2008; personaggi politici che nei filmati di repertorio hanno la faccia che avevano nella realtà, e nel resto delle scene sono interpretati da attori nemmeno vagamente somiglianti (a parte Dell’Utri, cazzo, Dell’Utri è lui sputato); e il solito vizio italiano di creare connessioni improbabili che facciano da collante a una storia che non esiste, per cui, alla fine, la soubrette scopata dall’industriale conosce il giovane politico leghista, ma si fa scopare dal consulente Publitalia ed è la sorella della giornalista del Tg1 che è amica del poliziotto del pool che a sua volta si scopa la figlia dell’industriale corrotto).

A un certo punto, il personaggio interpretato da Accorsi si lancia in un monologo che ha lo scopo di convincere un mobiliere a riprendere a acquistare spot sulle reti del biscione dirottando l’investimento dagli spazi all’interno di “Casa Vianello” a quelli di “Non è la Rai” e, beh, volevo dire agli sceneggiatori che così è troppo facile e populista, e che la vita vera è un po’ più complicata di così. Lo spiego facendo un esempio: io intorno al 1992 ero tipo il garzone di bottega in un posto molto di sinistra. Forse il posto più a sinistra che esistesse in quel periodo. E mentre le nuove leve erano più aperte e possibiliste, la vecchia guardia aveva, nel mondo dell’intrattenimento, tre nemici pubblici dichiarati. Tre che con la sinistra non avevano nulla a che fare e con cui la sinistra non avrebbe mai, mai e poi mai dovuto avere a che fare. Tre personaggi che stavano corrompendo la società civile italiana spacciando edonismo e stupidità via etere. Tre contro cui scendere in strada e dimostrare. Tre stronzi. Tre fascisti.

I nomi di questi tre personaggi, nella stagione 1992/’93, erano Rosario Fiorello, Lorenzo Cherubini e Ambra Angiolini.

Ma a parte questo – che è un lungo discorso su come la storia e il tempo, a lungo andare, ci facciano sembrare dei completi imbecilli – ai tre sceneggiatori volevo dire anche questo: che c’era molta più arte in un sopracciglio alzato di Mary Patty, in un ammiccamento di Angela Di Cosimo, in una chiappa di Francesca Gollini, di quanta ce n’è stata e ce ne potrà mai essere in tutta l’opera omnia di Stefano Accorsi.

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