Vogliono. Reintrodurre. L’immunità. Parlamentare.

craxi_assoltoE’ assurdo.

Umberto Bossi la chiamerebbe «nemesi storica»: lui del resto c’era, e c’erano pure Roberto Maroni, Ignazio Larussa, Maurizio Gasparri, Gianfranco Fini e tanti altri anche della sinistra. C’era soprattutto l’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano: fu lui a officiare la cerimonia parlamentare che diede il colpo di scure all’articolo 68 della Costituzione, ciò che cancellò la famosa autorizzazione a procedere da concedersi dopo aver vagliato un possibile «fumus persecutionis» dei magistrati.

L’articolo 68 con fu riformato una votazione bulgara: 525 sí, 5 no e un astenuto alla Camera; 224 sí, nessun no e 7 astenuti al Senato. Relatore della riforma: un giovane forlaniano di ferro, Pierferdinando Casini. La riforma sarà approvata definitivamente il 20 ottobre dello stesso anno: il che, trattandosi di riforma costituzionale, significa che andarono a tremila all’ora.

L’autorizzazione a procedere di per sè rimase: e rimane, ancor oggi, per richieste di arresti, perquisizioni, intercettazioni e supposti reati di opinione. La parte espunta, per farla breve, coincise con quella che una parte del centrodestra ora vorrebbe reintrodurre.

Credo sia il caso di raccontare come andò in quel 1993, però.

***

Bettino Craxi, il 24 gennaio, aveva preso la parola alla Camera per chiedere l’istituzione di una commissione di inchiesta che indagasse sul finanziamento illecito ai partiti negli ultimi vent’anni, ma la proposta era caduta nel vuoto. Troppo tardi: il Paese stava per precipitare in un vortice senza fine. Il 29 gennaio la Procura di Milano ordinò sette arresti, spedì sei avvisi di garanzia pesantissimi e mandò a perquisire la sede del Psi di Via del Corso: «Terremoto tangenti sui partiti» titolò il Corriere parlando addirittura di «giorno più teso della Repubblica». Non avevano ancora visto niente.

Il 19 febbraio, tra Roma e Milano, ci furono trentacinque arresti in un solo giorno: due ministri, Francesco De Lorenzo e Giovanni Goria, si dimisero rispettivamente dalla Sanità e dalle Finanze. Il ministro Franco Reviglio, che aveva sostituito Goria, dovette lasciare il 29 marzo per via dell’inchiesta Eni. Era il settimo ministro del governo a doversi ritirarsi per lo stesso motivo.

Così, il 22 aprile, si dimise anche Giuliano Amato. Al suo posto fu designato il «tecnico» Carlo Azeglio Ciampi, già governatore della Banca d’Italia. Il governo, per la prima volta nella storia della Repubblica, era guidato da un non parlamentare e ospitava tre ministri del Pds.

Ed eccoci al 29 e 30 aprile, i giorni dell’assedio all’Hotel Raphael e del linciaggio come estetica rivoluzionaria. Uno dei discorsi più belli e drammatici della storia della Repubblica, purtroppo, coincise con la morte politica di chi lo pronunciò.

Craxi scrisse quel discorso a Monte Mario, a casa di un’amica. Il discorso pareva funzionare, ma il calcolo dei voti pro e contro non lasciava scampo. Antichi favori andavano nella direzione di un appoggio segreto dei Radicali e della parte di Rifondazione comunista legata ad Armando Cossutta e al Manifesto, ma non bastava. Mancavano almeno 58 voti.

Il 29 aprile Craxi si affacciò alla Camera vestito di blu e con una cartellina rosa sotto braccio. Il relatore della giunta per le autorizzazioni a procedere, il democristiano Roberto Pinza, stava già spiegando che personalmente era favorevole a tutte le autorizzazioni del caso. Le tribune erano affollate da una dozzina di emittenti straniere tra cui una televisione messicana. Si vedevano Paolo Liguori, Giuliano Ferrara, Emanuele Macaluso e Luca Josi, fedelissimo di Craxi.

Prima dell’intervento del leader socialista ce ne furono un’altra decina senza particolare gloria. Marco Pannella, dopo una serie di subordinate senza ritorno, disse che avrebbe votato a favore delle autorizzazioni. Craxi a quel punto si voltò verso le tribune e allargò le braccia come a dire che era finita. A favore delle autorizzazioni si dissero poi anche il verde Mauro Paissan, il missino Filippo Berselli, il leghista Luigi Rossi e il diessino Giovanni Correnti. Craxi intanto stava sempre seduto, talvolta distratto. Poi toccò a lui, e l’aula si gremì. Gianfranco Fini rientrò in aula, Achille Occhetto preferì restare fuori.

Dello straordinario silenzio che seguirà, per 54 minuti, si farà letteratura.

Craxi ricamò attorno alle sue 39 cartelle. Cercò di inaugurare una Grande Confessione cui nessuno darà seguito: «Craxi aveva capito»‚ ammetterà anni dopo anche il procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio, «e avrebbe favorito, forse, una soluzione seria, ma fu vittima di un meccanismo perverso con i partiti che volevano approfittare delle disgrazie altrui».

Il leader socialista ammise le continue violazioni della legge da parte di quasi tutte le forze politiche, e denunciò la criminalizzazione dei partiti rispetto a fatti di corruzione personali:

«La vicenda dei finanziamenti illegali ha accompagnato le vicende italiane dal dopoguerra: il fatto che tutto questo avvenisse senza l’insorgere di clamorose contestazioni e denunce, senza particolari conflitti… significa che il sistema in funzione, e le sue irregolarità, non solo erano in principio riconosciute: ma erano contestualmente accettate e condivise, almeno dai più… E’ un sistema cui hanno concorso tutti i maggiori gruppi industriali del Paese, privati e pubblici, gruppi e società influenti anche sui mercati internazionali… Di questi tutto si può dire, tranne che siano state vittime di una prepotenza, di un’imposizione, di un sistema vessatorio ed oppressivo di cui non vedevano l’ora di liberarsi».

Poi il passaggio che cristallizzò la platea:

«Non credo che ci sia nessuno, in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro».

Quel giorno ne sarebbe bastato uno solo, di scemo disposto ad alzarsi: ma il Parlamento aveva esaurito anche quelli.

Il voto fu una scheggia: la voce del presidente Giorgio Napolitano scandì la concessione di due autorizzazioni a procedere su sei: sì alle indagini per corruzione a Roma e per finanziamento illecito a Milano, no per corruzione «in luogo non accertato» e per il reato di ricettazione. Dopo un attimo d’incertezza, partirono applausi sarcastici da missini, leghisti e dalle sinistre.

Lo spettacolo stava per cominciare. Striscioni, mazzi di volantini furono gettati tra i banchi, un deputato leghista incrociò le braccia simbolizzando le manette, e furono pugni battuti sui banchi, «Ladri di regime», «Mafiosi», il presidente della Camera ordinò di sgomberare le tribune, il socialista Giulio Di Donato lanciò un fascicolo verso Leoluca Orlando, un altro socialista, Giacomo Maccheroni, venne trattenuto dai colleghi mentre si scagliava contro Nando Dalla Chiesa.

Tutti i volantini e i cartelli di protesta erano già preparati, dunque preventivati. Il democristiano Francesco D’Onofrio fece capire che i voti a favore di Craxi erano giocoforza venuti anche dall’opposizione, e Gianfranco Fini perse la calma: «Se dici queste cose sei un mascalzone, siete dei ladri che avete difeso altri ladri». Più tardi annuncerà una lettera a Francesco Saverio Borrelli in cui esprimerà «solidarietà e sincero apprezzamento», e soprattutto auspicherà che sia superato «l’inammissibile scudo dell’immunità parlamentare». In quelle ore, del resto, lo chiesero un po’ tutti.

La sinistra ritirò il sostegno al governo Ciampi alle 20 e 22: il nuovo Consiglio dei ministri non si era neppure insediato. Il verde Francesco Rutelli era stato ministro dell’Ambiente per poche ore, tanto che Carlo Azeglio Ciampi sarà costretto a un rimpasto prima ancora di aver ricevuto la fiducia dalle Camere. Presto il voto segreto per le autorizzazioni a procedere verrà abolito, e i lavoratori, il 1° maggio, l’unica festa vorranno farla a Craxi.

Dirà Giovanni Pellegrino, Ds, allora presidente della giunta per le autorizzazioni a procedere del senato:

«Noi della sinistra consentimmo che venisse cancellato l’istituto dell’autorizzazione a procedere, strumento a tutela dell’autonomia del potere politico rispetto al potere giudiziario. E si aprì la strada alla mattanza di partiti di governo. Avevamo una sponda al Quirinale, e l’ansia di raccogliere i frutti sul piano elettorale era tale che facemmo in modo che quel Parlamento venisse sciolto anticipatamente».

Eppure, quel 29 aprile, Bettino Craxi ancora non sapeva che cosa l’avrebbe atteso l’indomani. Cenò al Raphael, tranquillamente, con pochi fedelissimi e con la donna che amava. Sembrava tutto normale.

La stanza di Craxi non aveva l’affaccio sulla strada, ma si sentiva lo stesso un certo trambusto: «Cos’è questo casino?», chiese. Era il 30 aprile e il casino era che in tutte le città d’Italia c’erano migliaia di manifestazioni contro di lui. C’erano occupazioni e  presìdi e sit-in e proteste, i centralini del Parlamento e dei quotidiani erano ingolfati di strepiti, le forze politiche facevano a gara nell’improvvisare comizi, la sua casa milanese era assediata, Montecitorio era circondato di bandiere striscioni, Piazza Colonna era sigillata dalla Polizia, i commercianti avevano svuotano le vetrine per protesta, la sedi socialiste e democristiane dello Stivale erano presidiate come ai tempi del terrorismo, il missino Riccardo De Corato si era ammanettato davanti all’ufficio craxiano di Piazza Duomo, nella stessa piazza già rumoreggiavano centinaia di persone, il fido Ugo Intini che era stato preso a sassate durante un’intervista, i verdi milanesi tiravano monete e oggetti vari contro la sede socialista di Corso Magenta, decine di università, per esempio a Venezia, erano state occupate dagli studenti anche con l’appoggio dei rettori.

Succedeva questo. Il presidente dei giovani industriali Aldo Fumagalli chiedeva a di manifestare «contro una delle pagine più nere della storia», il cardinal Martini invitava i cittadini alla «veglia dei lavoratori», l’Arci parlava di «scempio delle istituzioni democratiche», la Lega delle Cooperative di «rischio per la tenuta democratica del Paese», i metalmeccanici proclamavano due ore di sciopero, i liceali saltavano le lezioni, Repubblica aveva il titolo più grande della sua storia: «Vergogna, assolto Craxi», con Eugenio Scalfari a scrivere che «Dopo il rapimento e l’uccisione di Moro, è il giorno più grave della nostra storia repubblicana. Forse c’è addirittura un filo nero che lega uno all’altro questi due avvenimenti».

Il filo, nel frattempo, aveva lo spessore di una corda. Giorgio Forattini la disegnò annodata al piede di un Craxi raffigurato a testa in giù, come a piazzale Loreto. In basso a destra, sempre sul quotidiano di Scalfari, si annunciava un comizio di Achille Occhetto in Piazza Navona, ore 18.

Silvio Berlusconi, intercettato vicino all’Hotel Raphael da una sua tv, non badava ancora ai consensi: «Sono amico di Bettino da vent’anni, e da amico, personalmente, sono contento per lui: mi sembra che basti. Che rispetto potrei avere di me stesso, se dovessi voltargli le spalle nel momento della cattiva sorte?». Intanto Paolo Bonaiuti, suo futuro uomo-ombra, scriveva un violentissimo editoriale contro Craxi sulla prima pagina del Messaggero.

Bettino Craxi cominciò a intuire che qualcosa non andava alle sei del pomeriggio: a Largo Febo, dove c’è il Raphael, riecheggiava il comizio di Piazza Navona. Il cielo si stava abbrunendo e intanto davanti al Raphael c’era sempre più gente, perlopiù reduci dal comizio.

Tra i poliziotti che entravano e uscivano dall’Hotel era palpabile una certa insofferenza. Forse sarebbe bastato bloccare le vie d’accesso all’albergo, ma ormai era tardi, la folla s’ingrossava ogni minuto. D’un tratto si udì boato: era finito il comizio di Occhetto ed ecco giungere davanti all’Hotel ancora più gente, arginata malamente da solo due cordoni di celerini.

Era quasi buio e la folla gridava «Sei fi-ni-to, sei fi-ni-to”», «su-i-ci-dio, su-i-ci-dio». I poliziotti, nella hall, cominciarono seriamente a temere di non poter  controllare la situazione. Nicola Mansi, l’autista di Bettino, fece da tramite tra loro e Craxi che era ancora nella sua stanza. Un tizio in borghese provò con Luca Josi, l’uomo più vicino a Craxi in quel periodo di sventura: «Deve convincerlo a uscire dal retro». In effetti c’era una piccola uscita, sul retro. «Glielo dica lei», rispose Josi.

D’un tratto si sentì un botto: Craxi era uscito dall’ascensore dando un calcio alla porta. Si mise a posto la cravatta e si avvicinò a un gruppo di turisti: «Scusate il casino». Si avvicinò alla vetrata con un sorrisone beffardo e attraversò un nugolo dei poliziotti che aprì come le acque di Mosè: «Dicono che dovresti uscire da dietro», gli disse Nicola. Craxi si voltò di tre quarti e chiese soltanto: «La macchina è pronta?». «Sì». «Bene». Un attimo di pausa. «Allora andiamo».

Craxi diede un calcione alla porta, tipo uscita dal saloon, e fu un esplosione. La sera era illuminata a giorno dai flash e dai faretti delle telecamere, a guardarla in televisione sembra primo pomeriggio: sulla Thema marroncina salirono lui, Nicola alla guida e dietro Luca Josi e il fotografo Umberto Cicconi. Volarono urla, sassi, monetine, accendini e anche un ombrello. Cicconi sanguinò dalla testa, Josi si prese qualcosa in un occhio, Craxi sorrideva. Pugni sul vetro, colpi di casco, sacchetti di sassi sulla carrozzeria, nessun filtro tra l’auto e i dimostranti, i poliziotti erano tutti spersi o travolti. Craxi sorrideva rivolto al finestrino.

Ha raccontato la giornalista Rai Valeria Coiante:

«Eravamo a Piazza Navona, c’era la manifestazione del Pds, facevo le mie interviste di routine. Arriva la notizia: negata autorizzazione a procedere per Craxi. Si avvicina il collega Fabrizio Falconi del Tg4: “Andiamo al Raphael, si sta radunando un sacco di gente”. C’eravamo solo noi, quel giorno, io col mio operatore e lui col suo. A un certo punto il cordone dei poliziotti mi allontana dall’operatore, io comincio a dargli istruzioni col microfono, lui era in cuffia, era l’unico modo per comunicare con lui in quel casino: “Rimani sempre acceso, prendi tutto, fammi quelli coi cartelli e con le mille lire… La folla urlava sempre di più, un mare di persone si riversava nel vicolo stretto, la polizia infilava i caschi e parava gli scudi. Craxi esce dal portone, esplode un boato, “Eccolo eccolo” urlo nel microfono, mi abbasso e supero il cordone di polizia, corro verso la macchina di Craxi. Vengo investita da una tonnellata di metallo in tondini, monete, “stanno tirando di tutto! Pezzi di vetro, monete, tirano di tutto!”… La sera, in montaggio, mentre ero lì che assemblavo il pezzo e pulivo la pista audio, entra in sala Gianni Minoli. “Fammi vedere”. “Aspetta, sto levando l’audio e sto mettendo gli effetti”. “No, fammelo vedere così”. Va be’, penso io, la voce la levo dopo. “Ok, è incredibile. Perfetto. Va bene così, non toccare niente”. “Ma sembro ‘na pazza… fammi levare almeno dove sfondo i livelli”. “Non se ne parla, va in onda così”. Fece sette milioni di telespettatori al primo passaggio».

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6 Commenti

  1. Ah, le monetine, che ricordi…..
    A me, del bel discorso di Bettino (lo ammetto che era bello), non convinse assolutamente il “tra le righe”: tutti colpevoli, nessun colpevole”.
    Eh, no, cari signori. Tutti doppiamente colpevoli!!!

  2. tutto mi sarei aspettato dalla vita, fuori che l’attuale maggioranza volesse mettersi al sicuro dalle inchieste della magistratura.

  3. Questo racconto l’ho letto qualche giorno fa sul libro di Facci. Veramente appassionante.
    All’epoca ero ancora alle scuole superiori. Che idee manichee si aveva a quei tempi…..

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  1. Le monetine a Craxi | Moschebianche

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